20 marzo 2018

Avanti & Indietro Eugenio Tibaldi

 
Parola ad Eugenio Tibaldi, artista “consapevole di quanto il suo fare debba corrispondere al suo essere”
di Raffaele Gavarro

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La quinta conversazione di “Avanti&Indietro” è con Eugenio Tibaldi, nato ad Alba (Cuneo) nel 1977 e oggi residente a Torino, dopo aver vissuto per moltissimi anni a Napoli. Il suo lavoro è sempre profondamente legato al territorio che di volta in volta abita e vive, rispondendo alle frammentarietà delle realtà con le quali si confronta con frammenti che in prospettiva appaiono senza dubbio elementi di un puzzle complesso. Come tutti gli artisti impegnati in queste conversazioni, Tibaldi corrisponde in modo autentico al suo lavoro, consapevole di quanto il suo fare debba corrispondere al suo essere, perché quanto realizzato sia credibile nella sua interezza.
Partirei dunque da quest’aspetto, dalla necessità per te inderogabile che fare ed essere non sono separabili, ma dipendenti da una continuità il cui fine è una dimensione esistenziale della conoscenza, un processo che non solo cambia il nostro rapporto con la realtà, ma inevitabilmente noi stessi.
«Questa tua domanda apre uno scenario sul quale sto riflettendo da un po’ di tempo, ovvero: qual è il senso del reale? Ho elaborato un’idea tutta mia sul concetto di reale, sostituendolo con il concetto di “percepito”, ovvero se percepisco una cosa allora essa è reale. Partendo da questo presupposto diventa imprescindibile nella mia ricerca attivare la percezione diretta attraverso l’esperienza sapendo che quello che mi attende è solamente una possibile versione della realtà, non certo la verità. Questo approccio determina in me una condizione randagia che mi porta ad annusare i luoghi prima di guardarli, alla ricerca di dinamiche attraverso cui costruire dei processi in grado di rappresentare la mia idea di contemporaneità. Ogni progetto mi porta a rielaborare i codici della percezione per cui, inevitabilmente, mi modifica».
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Architettura minima 39, 2016,32×44, acrilico bianco su stampa fotografica courtesy dell’artista e Umberto di Marino , Napoli, foto di A. Benestare

Qual è il senso del reale? cos’è la realtà? sono domande che ci inseguono, dovrei dire perseguitano, sin dall’inizio della nostra civiltà e che non potevano che subire le conseguenze delle ulteriori complessità indotte dall’evoluzione delle nuove tecnologie digitali, che hanno dotato di una certa sostanzialità l’immagine riflessa della realtà, fino a fornirla di una propria autonomia, che è di fatto sempre meno evanescente. Le molte riflessioni che in vari ambiti – dalla filosofia all’arte, dalla psicologia alla scienza – si vanno formulando sulla questione, sono la dimostrazione di quanto la comprensione del nostro tempo non possa che passare attraverso delle risposte nuove a domande senz’altro antiche. Senza tentare di condensare, giocoforza semplificandolo troppo, in poche righe un argomento tanto complesso, proverei ad andare su un versante più concreto del tema, o che perlomeno ci riguarda direttamente. In un recente articolo sulla natura dell’arte italiana, ho scritto che la comprensione dei suoi caratteri non può che essere preceduta dall’intendimento della realtà italiana di oggi, perché l’arte non solo le corrisponde, ma è, almeno nelle intenzioni e nei risultati più rilevanti, parte costitutiva di essa. Dal nord al sud, e poi di nuovo al nord, passando spesso e inevitabilmente per il centro, tu hai sempre lavorato nel vivo della realtà italiana e spesso di quella meno visibile e più difficile, e quindi vorrei sapere qual è la tua idea della realtà italiana? Cos’è che hai percepito con la tua esperienza?
«Faccio parte di una generazione che ha vissuto l’apocalisse digitale. Noi siamo quelli che hanno studiato sui libri ma abbiamo lavorato da subito con Internet, subendone il fascino dell’iperreale. Ricordo ancora la prima volta che ho aperto Google Earth e sono rimasto tutta la notte a girare sul mappamondo. Questo doppio registro credo abbia caratterizzato in modo molto forte il mio lavoro ed anche quello di altri artisti, in cui l’approccio all’opera si è trasformato fino a ricercare una sorta di rallentamento del ritmo mediatico, miscelandolo attraverso la pratica diretta e la riappropriazione della responsabilità artistica, per ottenere un risultato che vada a riempire quel vuoto di riflessione ed approfondimento che caratterizza la super-velocità in cui viviamo. Dal 2000 in avanti ho iniziato a costruire una sorta di metodo con cui poter affrontare e raccontare il reale, un metodo che permettesse una lettura corale del percorso e che ne determinasse i canoni. In questi anni ho alternato quasi sempre un progetto all’estero con uno in Italia lavorando su diverse realtà, Napoli in primo luogo, ma anche Ascoli Piceno, Licola Mare, Verona, Roma, Catanzaro, Torino e Bologna. In ogni luogo ho sempre ricercato la crepa in cui poteva annidarsi una dinamica che fosse generante di una possibile nuova estetica e la testimonianza di una realtà orfana di una narrazione ufficiale. Le mie estetiche sono spesso micro-azioni mai sistematizzate e mai narrate che possono restituire i canoni di una lettura del momento in cui viviamo, riproponendosi come mappe di comprensione del presente. Costruisco il mio lavoro utilizzando come base la dimensione sociale, geografica ed estetica delle dinamiche che mi attraggono e poi, con una tecnica quasi più assimilabile alla scultura vado ad estrarre, attraverso la cancellazione, la stratificazione e il ritaglio, l’esatta estetica che voglio narrare e che ritengo importante. Spesso sono io il primo fruitore dei miei dispositivi, e in questo modo mi sono fatto un’idea della realtà nazionale che passa per i margini dei grandi centri e per la provincia. Luoghi in cui mi sembra di poter dire che la possibile evoluzione del nostro Paese riporta l’affaticamento della sua lunga storia».
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Architettura minima 56, 2016 44×32, acrilico bianco su stampa fotografica courtesy dell’artista e Umberto di Marino , Napoli, foto di A. Benestare

In questi giorni sto leggendo il nuovo numero (6/2017) della rivista il Mulino, intitolato Viaggio in Italia – racconto di un Paese difficile e bellissimo. Un’analisi in sessanta saggi dedicati ad altrettante città, territori e regioni del Belpaese, dalla quale sto cercando di ricavare una riflessione utile all’analisi più approfondita della natura della cultura e soprattutto dell’arte italiana. Nell’introduzione di Gianfranco Viesti (Professore di Economia Applicata all’Università di Bari), una delle prime osservazioni che inquadrano in modo generale le questioni italiane è proprio questa: “In Italia è più forte il rischio di vivere troppo nel passato, con lo sguardo forse nostalgicamente rivolto a quel che fu e non a quello che diviene e può essere.” […] “Corriamo il rischio di non trovare nuove narrazioni del presente e del futuro; di finire, come forse sta avvenendo soprattutto a Venezia, ‘prigionieri della storia’; di essere come l’Italia degli anni Cinquanta raccontata da Guido Piovene, ‘un Paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capire con chiarezza il perché’.”. Non deve tra l’altro sfuggire come la situazione di Venezia sia, nella sua contraddittorietà, emblematica di tutto il nostro Paese, prigioniera della storia eppure, e al contempo, sede del più contemporaneo degli eventi, la Biennale, che però è proprio la nostra stessa storia ad averci consegnato. Quello che mi sembra di poter dire con una certa sicurezza, e collegandomi al tuo lavoro, è che la storia pesa meno ai margini. Proprio in quelle marginalità che la politica nazionale e locale ha abbandonato a se stesse, proprio perché più interessata ai centri gravati di storia e con l’idea che la loro bellezza possa rappresentare l’unica salvezza – evidentemente solo la loro. Nelle marginalità che hai raccontato in questi anni, si avverte il bisogno, la necessità, di trovare soluzioni nuove ai problemi nuovi e reali che vi si manifestano. Tu le hai rese il centro di una narrazione che è il modus operandi che andrebbe perseguito dentro e fuori l’arte: ricondurre al centro ciò che viene elaborato ai margini, da una parte rendendo il centro meno stabile e autosufficiente, e dall’altra rendendo le marginalità più consapevoli del loro essere fondamentali nelle dinamiche generali. 
«Il sapore che l’Italia lascia, in una degustazione di piatti tipici, è indubbiamente quello di un paese prigioniero di sé stesso e della sua stessa cultura. Devo però dirti che io sono italiano e ne sono non solo fiero ma anche felice, felice di sentirmi l’erede di un formalismo e di una costruzione estetica senza eguali nel mondo. Ogni volta che compongo un lavoro sento forte la seduzione del minimalismo ascetico degli interventi nord europei o la ruvidezza di certe narrazioni d’oltreoceano, ma accolgo la sfida ed il richiamo di più profonde istanze che sono poi le stesse che continuano a tenermi qui, nel paese più interessante del mondo. Da tempo ormai sostengo una teoria che mi spinge a dire che i centri storici abbandonati a loro stessi imploderebbero in poco tempo, che la sostenibilità di città come Roma, Napoli, Milano, Torino ecc., dipende in modo fondamentale dalle periferie, da tutte quelle aree grigie in cui, lontano dai vincoli della storicizzazione e dall’amore per il passato le cose si fanno ed i cambiamenti avvengono con tutta la loro spietatezza e l’ingiustizia sociale che l’evoluzione porta con sé. È in queste aree che mi sento bene, sento che la vita pulsa in modo frenetico e che la possibilità del fallimento diventa motore di una spinta assai più propulsiva della comoda poltrona del nonno. La Storia si sente anche al margine, solo che il tempo è poco ed il chiasso è tanto per cui la si mette insieme alle altre voci e ci si ripete “facitema sta quiet che cà già ce ballana e cervella”, forti del richiamo animale delle esigenze primarie il margine è in grado di superare agilmente il tranello della nostalgia appoggiandosi alla pratica informale, riuscendo non solo a risolvere le problematiche ma spesso a suggerire percorsi alternativi che verranno assorbiti dal centro e riproposti come soluzioni cool e sostenibili dopo qualche anno. A Manifesta 7, in un progetto curato da Denis Isaia e dai Rascq Media Collective proposi di poter installare all’interno della sala destinata alle conferenze, progettata da uno studio di architettura, un’altra architettura in grado di assolvere alle stesse funzioni ma realizzata attraverso un sistema di post progettazione e di collaborazione vicinale, copiando le dinamiche della costruzione delle case abusive delle periferie del sud Italia. Nel 2009 sono arrivato a teorizzare per un lavoro la costruzione di un intero palazzo basato sulle scelte estetiche e funzionali dei singoli abitanti (post project building). Oggi sento parlare di architettura partecipata e di estetica informale. Per cui, anche se spesso non è riconosciuto questo passaggio, la linfa va sempre più sovente dalla periferia verso il centro, o almeno così mi pare».
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QUESTIONE D’APPARTENENZA 03 2015, 320 x 170 cm Stampa digitale su White back intagliata e sospesa courtesy dell’artista e Umberto di Marino , Napoli, foto di L. Pinto

Eppure, pur capendo quello che dici sulla risposta a profonde istanze che provengono dal nostro passato, nel tuo lavoro avverto proprio una capacità di stare dentro quelle marginalità che non le conoscono, che non le utilizzano per sopravvivere, ma che sono costretti a inventare modalità diverse per risolvere problemi non catalogati e al di fuori di quei formalismi storicizzati ai quali oggi attribuiamo quella bellezza che ci renderà per sempre i migliori. Io non so se la linfa dalle periferie riesce ad arrivare al centro, però sono sicuro che è quella linfa a consentire alle periferie di essere ancora vive, nonostante l’indifferenza dei centri.
«Mi piace pensare che davvero possiamo essere i migliori. Per farlo, o perlomeno per attivarne la possibilità, bisogna appunto cambiare. In qualche modo attraverso il mio lavoro ipotizzo scenari futuribili, quasi sempre impossibili ma necessari alla rigenerazione dell’energia di cui anche gli apparati più rodati hanno necessità. Le periferie, che spesso io intendo come una condizione mentale più che fisica, si reggono grazie a quest’assenza di amore per la stanzialità, sono spesso intese come luogo di passaggio, una condizione da cui emanciparsi e fuggire, spesso senza rendersi conto che sono gli unici luoghi in grado di generare quest’azione, la quale spesso è la chiave stessa dell’esistenza. Oggi la condizione periferica si può determinare anche in luoghi centralissimi attraverso dinamiche di decentramento sociale, reale o virtuale, il momento populista e post-democratico che stiamo vivendo necessità di una possibilità che difficilmente giungerà dal sistema ufficiale».
A me piace pensare che un giorno saremo semplicemente normali, riuscendo cioè a stare dentro la realtà per provare a capirla per quello che è, senza avere davanti agli occhi le lenti della retorica estetica del nostro passato, e questo sia dentro l’arte che fuori di essa. In questo senso, penso spesso al tuo lavoro sulle Architetture Minime e a come corrispondano a questa necessità: uno sguardo diretto, senza filtri, impietoso e coinvolto allo stesso tempo.
«Architetture Minime è uno di quei lavori che per ora ho solo iniziato e che mi accompagna ormai da sette anni ed è una sorta di indagine su un’alternativa del reale. Studiare le strutture abitative dei clochard rappresenta per me una possibilità diversa rispetto al vero che noi abbiamo scelto e che rappresenta una micronarrazione storica. Le Architetture Minime sono l’unica forma di abitazione della città che non vuole l’eternità, giacigli destinati a durare al massimo una settimana e che rappresentano una sorta di baluardo dell’architettura con la loro presenza rovinano l’immagine di perfezione del villaggio Potëmkin progettato dal potere. Tutto è nato dalla morte di un barbone sotto la galleria di Napoli. Abitavo lì vicino in quel periodo e lo vedevo quasi ogni giorno quando la mattina le guardie lo cacciavano dal suo luogo. Si alternava tra le vetrine di Zara e il bancomat del Banco di Napoli, con quel suo migrare di pochi metri in luoghi che rappresentano di fatto una società con cui aveva perso contatto. Mi è parsa una sorta di dichiarazione di guerra, una guerra alla Cervantes, a suo modo epica, in quanto l’avversario, nonché vincitore predestinato, non lo considerava neppure. Così ho iniziato a studiare e a censire le varie tipologie di Architetture minime ed i loro posizionamenti rispetto alle geografie sociali delle nostre città. Non sono riuscito a comprendere nulla delle scelte personali e sociali che spingono le persone a saltare il confine, ma amo pensare che esista una purezza del gesto che sia rivelatrice ed in grado di contenere alcuni degli insegnamenti che stiamo smarrendo o che dobbiamo ancora trovare».
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SECONDA CHANCE 2017, Installazione, dimensioni variabili Vista della mostra Da io a noi, Palazzo del Quirinale Roma courtesy dell’artista e Umberto di Marino , Napoli

Lo sforzo maggiore che dobbiamo compiere è quello di essere consapevoli della complessità, di cui non possiamo comprendere tutto, separando e decifrando le sue singolarità. Ma quando ne individuiamo alcune possiamo cercare di intrecciarle scoprendo trama e ordito della piccola porzione nella quale siamo. Il passo successivo è mettere queste piccole porzioni le une accanto le altre. Un processo che deve però tenere in altrettanto conto delle fratture, temporali, spaziali e di pensiero, che si alternano a condizioni di stasi e che ci impediscono quella linearità continuativa che in fondo cerchiamo disperatamente. Io credo che oggi siamo in un momento di frattura, d’interruzione drammatica di quella linearità, e che per questo facciamo molta fatica a comprendere anche la piccola porzione in cui siamo. Il tuo progetto L’abitare informale e i lavori che intitoli Questione d’appartenenza, con le centinaia di immagini a formare un tessuto eccentrico e sconnesso, ci parla di questo, della necessità di comprendere la porzione in cui si è e della frattura da superare.
«Questione d’appartenenza è stato un progetto meraviglioso, per la prima volta ho lavorato a stretto contatto con un gruppo di ragazzi del Liceo Vico di Napoli per realizzare una ricognizione delle micro azioni informali che caratterizzano i palazzi storici dei vicoli napoletani. Un lavoro titanico, abbiamo raccolto 24000 immagini e percorso 100 km di vicoli nei vari quartieri popolari presenti nel centro città. Volevo raccontare la capacità, generata da caratteristiche ambientali e sociali, che alcuni popoli hanno di ampliare lo spazio e plasmare la materia trovando possibilità alternative, parlare di micro illegalità senza puntare il dito sulla singola azione, ma leggendone un livello corale in cui l’apparente disarmonia diviene ritmo visivo ed una trama estetica che si pone come un filtro aperto sul mondo e ci racconta delle dinamiche private. Se esce un nuovo tubo dal muro sappiamo che serviva un bagno, se spunta una finestra al di fuori della griglia sappiamo che hanno diviso una stanza, se si scelgono delle balaustre per il soppalco abusivo sappiamo che c’è un amore per il classicismo ecc. Così un territorio che sembra impossibile da gestire a livello di massa umana e di pressione sociale riesce a vivere con regole diverse, trasformando il quartiere in una questione d’appartenenza. Ho vissuto per due anni nei quartieri per questo progetto e porterò sempre con me quell’esperienza unica e privilegiata che attira ragionamenti e riflessioni dal 1600».
Esperire, conoscere per prova, non è naturalmente l’unica via della conoscenza, ma di sicuro è una condizione essenziale per l’arte di oggi, un modo che mi pare possa riconciliarla con un’estetica riportata al suo titolo primario.
Raffaele Gavarro

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