22 marzo 2018

Street art al cimitero di Selci. La Cenere di Borondo conquista l’Arte Laguna Prize

 

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Street art in un cimitero, dove vita e morte si sfiorano in uno straziante addio. Chi pensa che l’arte di strada sia effimera, superficiale e fastidiosamente invadente, una sorta di rumore visivo che disturba lo scenario cittadino, certo non conosce il lavoro recente di Gonzalo Borondo, capace di toccare corde delicatissime con un linguaggio allo stesso tempo raffinato e icastico, ieratico ed emozionante. 
Classe 1989, nato a Valladolid, in Spagna, e vissuto a Roma e a Londra, Borondo ha vinto a Venezia la sezione “Arte ambientale | Arte urbana” del premio Arte Laguna Prize 2018, con il progetto Cenere, a cura di Carlo Vignapiano ed Elena Nicolini, realizzato nel 2017 dopo due anni di lavoro nel cimitero di Selci in provincia di Rieti, nell’ambito della residenza d’arte Pubblica. È la prima volta che la street art entra in un camposanto e lo fa depurando una stratificazione di scordevolezze barocche intrise di vanitas in un minimalismo quasi monocromo, scardinato in un crocicchio di inviti narrativi, nei quali il discorso simbolico si ammanta di un sussurro fascinoso di preghiera laica e ipercontemporanea. 
Non facile – anzi decisamente scivolosa – la scelta di realizzare un intervento pittorico e installativo totale, volto a ripensare lo spazio interno ed esterno della cappella funebre in cemento del piccolo cimitero, frequentato quotidianamente dalla comunità di Selci, attraverso la pittura murale, la ripavimentazione, il disegno della nuova porta e un apposito studio dell’illuminazione. Non lo spazio urbano e anonimo del passaggio quotidiano e distratto è, infatti, lo scenario in cui si mette, stavolta, alla prova l’arte carnale, sfigurata e piena di passioni di Borondo, ma il luogo rarefatto e consacrato in cui compiere il rituale del trapasso, in cui si misura il tempo della memoria, si esercita la gestualità del commiato, si tenta l’elaborazione della perdita, dove l’uomo comprende la misura dei suoi limiti. Quel luogo, insomma, che, nel suo non ammettere andirivieni si fa vibratile schermo di un’ideale e impalpabile scambio di energie che l’arte di Borondo riesce a catalizzare in una dimensione di quiete. Energie che vengono esaltate, come scrive la giuria del premio veneziano, «sul piano emozionale, architettonico e pittorico» in «un’opera capace di bilanciare ricerca formale e profondo rispetto del contesto». La giuria premia dunque «l’alto valore lirico e formale del progetto» e l’aver affrontato il tema della morte «con grande maturità». 
La dimensione di schermo viene sapientemente indagata da Borondo: in un dominante grigio cinerino che si va depositando con il peso dell’assenza, l’artista sfonda la circolarità del luogo di preghiera attraverso una raggiera di otto aperture immaginifiche che tracciano la direzione dello sguardo verso altrettanti sentieri che conducono in luoghi inediti, paesaggi del cuore o architetture della mente, dove del tutto assente è la figura umana, con l’intermediazione di una candela sospesa sulla soglia che non si può varcare se non con l’ultimo respiro. In corrispondenza dell’altare, sul lato opposto alla porta di ingresso, una grande croce luminosa che si riflette su ciascuna delle lastre di vetro poste a protezione delle pitture. Sul muro s’addensa il bianco e nero di una gestualità veloce, fremente e quasi estemporanea che si mescola con una precisione quasi architettonica della composizione, dell’architettura, della prospettiva, offrendo un’ospitalità sofferta anche a graffi e scalfitture che testimoniano di un corpo a corpo dell’artista con la superficie pittorica. Mentre, sulla testa, una bassa cupola si squarcia, in un moto vorticoso di nuvole grigio-nere in opposizione al pavimento bianco che, salendo lungo i muri, via via si scurisce, fino a svelare l’oro. 
Cimentandosi con l’ambizioso progetto di riqualificazione di uno spazio pubblico di grande valore simbolico ed emotivo, Borondo sceglie di confrontarsi con temi universali come la morte e la speranza della rinascita e ambisce, nell’apertura di uno spazio di contemplazione, a misurarsi con l’eterno in un’ansia terrena di assoluto, per radicarsi e non dimenticare. La risposta di Borondo alla domanda di foscoliana memoria sui sepolcri è la necessità di rifiatare nello scorrere. «Siamo flusso – scrive l’artista per spiegare il suo intento – e al flusso non è dato interrompersi. Siamo fiumi: nasciamo e scendiamo forti, incontriamo altri fiumi che come noi scorrono inesorabili. Influenziamo vicendevolmente il nostro scorrere, ne condizioniamo le sorti e l’essenza. Ci disperdiamo, ci ritroviamo (non sempre) ma tutti alla fine ci fondiamo nell’immensità scura del mare a cui tutti apparteniamo, da cui tutto ha origine: siamo uno». Alla ricerca di luoghi, di puntelli, in cui per un momento ritrovarci e ricordarci chi siamo. (Francesco Paolo Del Re
In home e in alto: ©Blindeyefactorty 

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