10 aprile 2018

Arts & Crafts Edoardo Tresoldi

 
Mescolare le carte tra archeologia, reti metalliche e stratificazioni. Edoardo Tresoldi al Museo della Scienza di Milano
di Matteo Bergamini

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Edoardo Tresoldi è uno di quegli strani casi che è difficile ascrivere ad una appartenenza precisa: artista o designer? Scenografo o scultore? Per lui c’è una continuità precisa tra queste discipline, ma solo a livello di intenzionalità: per Tresoldi (nato nel 1987 in provincia di Milano) si tratta di bypassare i generi, contaminando la contemporaneità per rendere – in certi casi – più vivo il passato. Il nostro incontro è avvenuto durante la 16esima Business of Design Week di Hong Kong, e oggi Tresoldi invece al Museo Nazionale della Scienza e Tecnologia Leonardo Da Vinci apre il progetto “Sacral”, nei giardini del museo: un’occasione unica per ricordare ai visitatori la natura storica degli edifici che ospitano – dal 1953 la Scienza e la Tecnologia – ma che invece erano un tempo dedicati alla spiritualità, prima come convento benedettino e poi monastero olivetano. “L’installazione di Edoardo Tresoldi riesce a dare tridimensionalità alla missione del Museo: raccontare il passato, interpretare la contemporaneità con nuovi linguaggi e strumenti, proiettarsi verso nuove dimensioni, in un continuo mutare e interagire con ciò che lo circonda”, è la presentazione.
Inserito tra i trentenni più influenti del mondo da Forbes, la nostra chiacchierata inizia con una dichiarazione spontanea: «Sono borderline: dal mondo dell’arte mi dicono che sono scenografo, gli architetti dicono che sono un’artista e gli scenografi che sono architetto! Personalmente, questa dimensione ibrida e contaminata tra le discipline non mi mette a disagio, anzi. Penso che sia abbastanza contemporanea questa dimensione multidisciplinare. La società, anche con l’idea della crisi, ci ha quasi imposto di guardare l’uno alla disciplina dell’altro, mentre tempo fa – forse – si era ben lungi dallo sconfinare tra i generi».
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Edoardo Tresoldi, foto di Fabiano Caputo, Ex Dogana Roma
Raccontami di te: vieni dalla scenografia, giusto?
«Ho lavorato per 7 anni a Roma, partendo dalla manovalanza con gli attrezzisti e facendo lavoro di bottega. Inizi dalle cose più piccole e poi ti fai un po’ di strada tra le maestranze e impari, ti educhi anche ad una teoria e non solo ad un mestiere. Poi ho deciso di abbandonare il cinema nel momento in cui si stavano aprendo dei riconoscimenti e ho deciso di seguire la strada che vedi oggi».
Sei stato l’unico italiano trentenne invitato alla Business Design Week di Hong Kong come relatore e, mentre mostravi le tue slide al pubblico, sei stato applaudito. Uno momento più unico che raro per un parterre asiatico molto impostato. Mi sembra un bel riconoscimento. Un po’ come è stato farti mettere le mani in un sito archeologico come Siponto, e farti ricostruire una basilica…
«Credo che in questo caso ci sia stata un’incoscienza da parte mia e anche da parte del Ministero: quello che è successo, all’atto pratico, è stata una rivitalizzazione dello spazio. Siponto è passato da avere 800 visitatori all’anno a 120mila l’anno successivo. Per un luogo come quello, in pieno sud, che non è Roma né Atene è stata una rivoluzione. Da Siponto mi sto chiedendo che cosa significhi intervenire sul tempo, per creare una “rovina metafisica”».
Cioè?
«Prendi un’architettura che viene dal passato, e la collochi in uno spazio e un tempo che – in teoria – non gli appartengono più. Lì si crea il cortocircuito. Siponto è stato un trampolino anche per altre realtà legate all’archeologico che non avevano il coraggio di osare. Come si può rendere fruibile e intelligibile il passato ai contemporanei? Non è un discorso di spettacolirazzione, ma non si può restare legati alla pura accademia e all’immobilismo. A Siponto la basilica non era che un perimetro, e la sfida è stata riuscire a raccontare l’edificio in maniera semplice, nel rispetto del paesaggio. Se non vogliamo far morire queste realtà e questi tesori è necessario far passare anche un nuovo aspetto, in grado di affascinare».
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Edoardo Tresoldi, foto di Fabiano Caputo, Ex Dogana Roma
Parliamo anche della street art: sei stato riconosciuto – inizialmente per la scultura dell’Uomo che pensa sul mare di Sapri.
«Sì, anche se non facevo pienamente parte del fenonemo dell’Urban Art nelle zone di Roma e Lazio. In poco tempo quel format è scoppiato un po’ mano».
Prossimi progetti?
«Sto preparando un’installazione per il Coachella 2018, ancora di rete metallica; poi ho un paio di lavori legati a ricostruzioni di edifici. Da una lettera ricevuta da un cittadino dell’Umbria è partito un progetto per una sorta di remake di una chiesa che pare essere stata costruita da allievi del Bramante, e andata distrutta durante il terremoto di Norcia del 1979. Il desiderio è ridare dignità a un posto che, per i suoi abitanti, ha ancora un forte valore. Come del resto è fortissimo il senso di appartenenza a un territorio anche difficile, dove la convivenza con il sisma è parte integrante. Vorrei riuscire a rimettere in piedi un santuario inserendomi sia nel racconto di quel che c’era, ma anche di quella che è stata la stratificazione di un paese che in 4 generazioni, con 4 terremoti, è stato 4 volte sepolto e ricostruito. Anche in questo caso cercherò di mescolare le carte».
Matteo Bergamini

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