24 aprile 2018

Rosa odio

 
In occasione della "Liberazione" Lenz Teatro rilegge con uno spettacolo dal forte pathos una pagina controversa e poco battuta dalla storiografia ufficiale: lo sterminio omosessuale

di

Da oltre trent’anni a Parma esiste un luogo che mette in scena, grazie all’impegno di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, le più contemporanee e audaci ricerche nell’ambito delle arti performative. È Lenz Fondazione, due sale e un “modus operandi” che sarebbero tanto piaciuti a Pier Vittorio Tondelli e alle sue peregrinazioni postmoderne in questo frammento d’Italia, che mantengono un affascinante lato underground in quello che era un vecchio complesso manifatturiero.
Ma quel che rende interessante questo spazio scenico, oltre la sua estetica, è una ricerca serrata su quel “teatro non sereno” – che è anche il fil rouge di un appuntamento che si tiene giovedì 26 aprile a latere dello spettacolo Rosa Winkel, Triangolo Rosa, che ha debuttato pochi giorni fa, programmato in occasione della giornata dalla Liberazione. 
Costruito su un secco testo firmato da Pititto, la rappresentazione racconta, per versi e cenni storiografici intorno alle leggi razziali ai tempi della Germania Nazista, la vicenda pubblica di Otto Peltzer, forse il più grande mezzofondista tedesco, alla cui gloria sportiva si era affiancata l’onta più indecente: essere omosessuale. 
Maestri e Pititto mettono così in scena uno spettacolo crudo che permette agli spettatori di avvicinarsi al dramma, aumentando la tensione evitano i posti a sedere: il pubblico è così libero di muoversi nello spazio, di accostarsi agli attori e agli oggetti di scena, di osservare da vicino gli elementi che compongono questa performance recitata e di divenire così elemento integrante della messa in scena: siamo osservatori di un ipotetico campo d’atletica dove metaforicamente corre Peltzer, o siamo testimoni muti di una storia vecchia di nemmeno un secolo che non si è riusciti ad arginare, e siamo anche in qualche modo “complici” del promulgamento e dell’inasprimento del celebre Paragrafo 175 che, dagli anni ’30 del ‘500, prima ha condannato gli omosessuali al rogo, poi alla perdita dei diritti e infine all’internamento nei campi di concentramento. 
rosa-winkel rosa-winkel

Lenz Fondazione, Rosa Winkel Triangolo rosa – foto di Maria Federica Maestri
In questi luoghi disumani, ricorda Pititto, per ironia di una sorte oscena e beffarda, a loro volta gli omosessuali sono stati una sottocategoria vessata dagli altri “colleghi” ebrei, zingari, prigionieri politici, dissidenti, testimoni di Geova e affini, deportati nei luoghi dell’orrore. 
La parabola sportiva di Peltzer passa per questi canali: rifugiatosi in Svezia e Finlandia prima, deportato a Mauthausen non appena rientrato in Germania e poi, finito il regime, verso l’India per poi tornare in terra natia dove morirà con ancora il cronometro al collo, al termine di un allenamento, nel 1970.
Un testimone della storia, Peltzer, di una maledetta storia che nessuno oggi – ai tempi di grindr e di uno sdoganamento dell’omosessualità liquido e annacquato come fosse una tipicità fashion – sembra ricordare in maniera organica e meno romanzata. 
Così come è rimasto decisamente offuscato al “grande pubblico” il discorso segreto di Heinrich Himmler ai generali della Schutzstaffel (i Reparti di difesa) nel 1937: una vera e propria invettiva eugenetica contro gli omosessuali come male oscuro in grado di annientare un Paese. Anni fa, quando ancora la scena gay, queer e clubber aveva le sue fanzine che producevano anche cultura, oltre a servizi di fermo posta e messaggistica (oggi quasi in toto scomparse o votate ad articoli che poco si differenziano da quelli dei settimanali scandalistici, almeno in Italia) a volte ci si poteva imbattere in qualche estratto di questa arringa (qui il testo completo): “Tra gli omosessuali ci sono delle persone che hanno fatto proprio il seguente punto di vista: “Quello che faccio non riguarda nessuno, ma solo la mia vita privata”. Ma non è vero, non è solo la loro vita privata: il dominio sessuale può essere sinonimo di vita o di morte per un popolo, di egemonia mondiale o di riduzione della nostra importanza ai livelli della Svizzera. Un popolo che ha molti bambini può aspirare all’egemonia, alla dominazione del mondo. Un popolo di razza nobile che ha pochissimi bambini ha comprato un biglietto per l’aldilà: non avrà più nessuno fra cinquanta o cento anni, e da qui a duecento o cinquecento anni sarà estinto”.
null
Lenz Fondazione, Rosa Winkel Triangolo rosa – foto di Maria Federica Maestri
Ora immaginate questo passo recitato con veemenza, da un Himmler in cappello di paglia e vestaglia, che lancia nel buio della sala, contro gli armadietti dello spogliatoio e contro il corpo nudo di Peltzer che avanza verso il baratro, una miriade di soldatini raccolti in manciate, in un’atmosfera paradossale e allucinata che ricorda anche le parole che Jean Genet, in “Pompe funebri” (titolo originale Pompes Funèbres), riserva per Hitler: “Una checca che manda a morire i suoi uomini più belli per possederli tutti”. Altro lato della medaglia di una storia che, in Himmler come in molti altri, trasuda un forte lato freudiano. 
Ma non siamo qui per fare le pulci ad alcun criminale, ma per raccontare di uno spettacolo che a tratti si carica anche di profondo erotismo che va di pari passo col buio di Thanatos e che, nell’oscurità rischiarata da potenti fari puntati addosso come durante un interrogatorio, permette di riscoprire uno dei lati meno raccontati di quel delirio collettivo durato anni. 
E ad un certo punto il vagare degli spettatori quasi cessa: la piccola folla (non più di 25 ammessi per ogni spettacolo, in scena fino al 28 aprile) si raccoglie sempre più sospesa, mentre incalza uno strano ritmo wagneriano (composto da Andrea Azzali) interrotto dalla storia che riaffiora. Didascalica forse. Ineluttabile. E mai più ripetibile. 
Matteo Bergamini

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui