16 maggio 2018

Addio a Tom Wolfe. Maestro del giornalismo, espressionista della parola

 

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Sempre elegante, con un certo gusto del troppo, con quei suoi tre pezzi color panna adatti più a un tramonto da cocktail sulla spiaggia che all’occhio del ciclone. Comunque sempre al posto giusto, cioè al centro degli eventi ma senza lasciarsi condizionare troppo perché si tratta di giornalismo. Tom Wolfe, scomparso lunedì, 14 maggio, all’età di 87 anni ben portati, a parte quella brutta polmonite, accompagnava i lettori nella notizia attraverso l’infrastruttura delle parole, con una naturalezza da gesto quotidiano, quello che, per dire, usava per aggiustarsi il ciuffo bianco di capelli. I suoi pezzi per il Washington Post, per il New York Tribune, per Rolling Stone, i suoi romanzi, come Il falò delle vanità, hanno contribuito a creare la mitologia di un’epoca. Dalla controcultura a Ronald Reagan, dalle sperimentazioni delle droghe sintetiche alle speculazioni finanziare di Wall Street, dai radical-chic della prima ora agli yuppies in doppio petto, tutto poteva entrare nella porzione di spazio implacabilmente osservata da Wolfe, espressionista della punteggiatura e delle congiunzioni, pronto a distorcere la sintassi e la grammatica pur di trovare una combinazione linguistica aderente al mondo, alle cose, alle persone. Insieme a Truman Capote, Norman Mailer e ad Hunter Stockton Thompson – il più radicale del gruppo – stava creando un nuovo modo di raccontare la realtà, della qual cosa si rese immediatamente conto, essendo un acuto osservatore anche di se stesso. Assemblatore stakanovista di neologismi, coniò il termine New Journalism – che però non gradiva particolarmente – nei primi anni ’70 e, ancora oggi, questo racconto ha il sapore di qualcosa di nuovo. (mfs)

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