19 giugno 2018

Pensieri per Dakar

 
Una Biennale in una città che commuove per ospitalità. Con una voglia di crescere che si misura nel coinvolgimento dell’Europa più muscolare: Francia e Germania

di

Negli scorsi giorni Dakar è stata interamente contaminata dall’Heure Rouge – titolo della 12esima Biennale curata per la seconda volta di fila dal camerounense Simon Njami – dalla punta più a sud del Plateau (il centro) dove si trova le Palais de Justice, su fino al Musée T. Monod – l’IFAN, ed intorno a ragnatela nel Plateau ancora,  gli eventi OFF (250) che si dipanano fino ai quartieri centrali, passando attraverso palazzoni, zone residenziali, mercatini chilometrici all’aperto, la zona industriale dove il traffico si snoda lento e polveroso a causa di code di camion, fino al nord, ancora case bellissime, nelle strade spesso sterrate e rosse della terra magica dell’Africa. Nella ricerca si perde l’orientamento nel calore affocato dell’estate incipiente, ristorati a tratti dalla vista meravigliosa del mare che circonda la penisola su cui è adagiata Dakar. Ma il luogo in cui ci si trova letteralmente immersi in un’altra dimensione è l’isola di Gorée, dove la Fondation Dapper ha organizzato una serata d’eventi e mostre durante le inaugurazioni della Biennale. Si raggiunge attraverso un affollato traghetto e poi si percorre a piedi, per strade sterrate, circondate da muretti bassi e colorati dietro ai quali si aprono cortili di case modeste con orticelli e animali, ma anche negozietti per turisti, piccoli musei e alberghetti. Le strade si inerpicano fino a spianate dove il sole batte ampio e impietoso, come quella davanti alla chiesa dove si erge l’opera di Soly Cissé: un Campo di cotone, 2018 fatto di fiori di ferro saldato e fibra sintetica, in ricordo degli 11 milioni di schiavi che a Gorée venivano raccolti da varie zone dell’Africa per essere deportati a Santo Domingo, Alabama.
null
Veduta generale del Palais de Justice
E penso che qui siamo nel cuore dell’evento, nella voragine secolare creata da una ferita ancora aperta, perché troppo grande per essere ignorata anche per qualche frazione di secondo. Tutto ruota intorno al peccato originale dell’uomo bianco, a questo ratto di uomini, di terre, di immaginari, di sguardi autoctoni e l’Africa se ne vuole riappropriare in un afflato di libertà. Questo è “l’uomo nuovo” di cui scrive Simon Njami nel suo catalogo e Njami stesso ne è l’alfiere nel mondo almeno a partire dall’importante mostra itinerante Africa Remix di cui era co-curatore, più di dieci anni orsono. L’interesse rivolto all’arte africana (e alla sua diaspora direbbe il direttore) ha avuto un’accelerazione eclatante a cavallo degli ultimi anni, basti pensare almeno ad Art Paris Art Fair del 2017 con l’Africa come ospite d’onore e l’inossidabile Njami che curava in contemporanea la mostra Afrique capitales alla Villette di Parigi, le mostre sempre a cura di Njami a Roma proprio in questo periodo, la prima alla GNAM e la seconda al MAXXI. E, per citare ulteriori flash africani dell’estate 2018: la mostra allo ZAC di Palermo nata da un’idea dello scrittore Wole Soyinca e la Biennale di Berlino curata dalla sudafricana Gabi Ngcobo. Ritornando al Palais de Justice, forse gli artisti che più mi hanno colpito per la loro concisa e profonda poesia sono stati il sudafricano James Webb (I do not live in this world alone, but in a thousand worlds (The two insomnias), che mi fa rievocare Felix Gonzalez-Torres) e la cubana Glenda León (Tempo perduto II, 2013, una clessidra che affonda la parte inferiore su una montagna di sabbia). Il drappello sudafricano e quello geograficamente speculare del Marocco sono i più nutriti ed interessanti, notevole e polimorfa infatti è l’installazione Mogalakwena di Moshekwa Langa, un’altra installazione più essenziale, ma ugualmente stratificata è quella del senegalese Cheikh Ndiaye. Da segnalare anche la complessa e brillante macchina multimediale rievocante la credenza Abakua del beninese Emo de Medeiros. Di respiro l’accostamento tra la volante Casa rossa di Caronte del dominicano Marcos Lora-Read e l’installazione con le vele dell’egiziano Ibrahim Ahmed. Analoghe le riflessioni su un’antica libertà ed un’attuale oscurantismo visto attraverso la produzione musicale della franco-algerina Katia Kameli e dell’algerina Amina Zoubir. Infine, i premiati: il primo premio è andato a Laeila Adjovi, fotoreporter e fotografa del Benin che vive a Dakar, per la serie fotografica  Malaïka Dotou Sankofa:  un angelo-uccello messaggero africano imprigionato, malinconico e narciso, dotato di grandi ali colorate con cui può sognare di scappare. Metafora di una situazione urgente e tragica, trattata con anatemi violenti di questi tempi, mai – come qui – con umana poesia. 
null
Glenda Leon
Il premio dell’UEMOA all’ivoriano Franck Abd-Bakar Fanny evidenzia un’altra urgenza e necessità, la scelta di un punto di vista africano sul mondo. Non a caso ancora fotografie (qui delle brulicanti strade d’Oriente) alla Villette un anno fa invece il suo sguardo restituiva tre città dell’America del Nord. Al Palais c’era anche una retrospettiva dell’artista senegalese recentemente scomparso Ndari Lo, cui faceva eco l’omaggio strategico all’altro artista simbolo del Senegal: Ousmane Saw (1935-2016) cui il potente spazio dell’Effage dedicava una personale in concomitanza con l’apertura della Maison-Musée O. Saw. 
Un più articolato respiro all’IN veniva fornito dai curatori internazionali (eppure non presenti in catalogo): il camerounense Bonaventure Ndikung che si è focalizzato sulla poliedrica figura del musicista egiziano Halim El-Dabh e le sperimentazioni africane di sound-art. Cosmin Costinas (basato ad Hong Kong) offriva una prospettiva ecologica e politica attraverso artisti di quattro continenti. Una mescolanza di pratiche artistiche-critiche-attiviste è dato dalla messicana Marisol Rodríguez. 
Nella sezione off c’è invece l’impeccabile galleria Cecile Fakhouri, che ha aperto quest’anno la sua terza sede a Dakar, dopo Abidjan e Parigi (dove alla fiera del 2017 ha vinto il premio come migliore galleria), la variegata galleria senegalese Atiss attenta ai giovani, l’interessante mostra theMatter#1 all’immeuble Grey,  curata da un sensibile imprenditore francese, basato in Senegal e capace di presentare artisti come Amadou Sanogo (allievo di Abdoulaye Konaté in Mali) e il giovanissimo e poliedrico Benjamin Blayenda. Luogo di dibattito, residenze e mostre d’impegno socio-critico è la RAW MATERIAL COMPANY. 
E Dakar, non in ultimo, è anche la profusione di Istituzioni e Fondazioni che fanno capo soprattutto alla Francia e alla Germania ma non solo, tutte con mostre ed iniziative di rilievo. L’Italia invece è del tutto assente, almeno a livello istituzionale. Una Biennale che merita una profonda attenzione, pur nelle sue imperfezioni (soprattutto al Palais), con una città commovente intorno, e la sua brulicante operosità e ospitalità, attività, brillantezza, voglia di crescere e di essere protagonista: crogiolo vivo di pensieri, di attività e di energie inesauribili. 
Carmen Lorenzetti

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui