20 giugno 2018

Palermo, dal furto allo studio visit

 

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L’impressione che si ha a Palermo è che Manifesta 12 sia ormai lontana, già inghiottita e digerita da una città che ha dimostrato di essere, al tempo stesso, curatrice, artista e opera d’arte. Tanto da annullare gli ospiti convitati e il loro bagagli di invenzioni, seppure signorilmente come si addice a una nobildonna di alto rango quale è Palermo. Dove la mattina nella giornata di ieri è stata aperta dalla notizia del furto, a Teatro Garibaldi, headquarter della biennale nomade, di diverse apparecchiature elettroniche, per un valore di 15mila euro. Grazie ai video registrati dalle telecamere di sicurezza installate nella zona di piazza Magione, la polizia avrebbe già individuato i tre giovani, di cui due minorenni, che avrebbero messo a segno il furto. Intanto, ieri c’è stata la visita della scientifica alla ricerca di impronte digitali e di altre tracce biologiche. Se la notizia del furto non fosse vera, si potrebbe pensare all’ennesima performance. Incentrata su quel lato oscuro del capoluogo siciliano rumorosamente silenzioso. Oggi è stata giornata di studio visit. L’appuntamento è a Palazzo Speciale Raffadali nello studio di Ignazio Mortellaro. Raffinato quanto sofisticato artista del luogo, di cui mesi fa ho visitato la personale da Francesco Pantaleone, sospesa tra le lastre di ferro ossidate della serie “Land” e i collage di resti e documenti di vecchi cantieri, rimontati e ricuciti, del ciclo “Mindscapes”. Un alveo di ricerca in dinamico equilibrio tra materia, memoria e archetipo, nonché tra artificio e natura. Binari paralleli che attraversano Palermo e che seguo in direzione del suo studio. Lungo il tragitto continuo a imbattermi in quelle performance e installazioni spontanee che albergano pressoché ovunque nella città. Questa volta, in prossimità del tratto finale di via Discesa dei Giudici, quella che va da piazza Bellini a piazza Sant’Anna. Qui scorgo un negozio di pompe funebri. Piccolo, angusto e stretto. Per esporre la mercanzia, le casse di legno sono state disposte in altezza, una sopra all’altra, in un allestimento “spaziale” con fili da pesca che le fa come galleggiare in aria. Mentre un motto recita “per viaggiare più in alto”. Cosa altro aggiungere! Giungo a destinazione, esattamente in via Giuseppe Mario Puglia 2. Nello studio di Ignazio Mortellaro il padrone di casa non c’è, ma vengo accolto dal suo assistente, Riccardo d’Avola, un giovane e inarrestabile artista. Il luogo, l’antica cavallerizza del palazzo, si compone di un’infilata di ambienti, alti, imponenti, ma accoglienti. Nel primo è stata allestita la temporary project room di Vittorio Rappa che inaugura oggi pomeriggio, dalle ore 18, “Two/2”, la bi-personale del milanese Luca De Leva e del cileno (anche se ormai anch’egli un po’ milanese d’adozione) Hernan Pitto Bellocchio. Luca è per me una vecchia conoscenza, o meglio il suo lavoro lo è, conosciuto in un’interessante, anche se non scevra di inquietudine, personale da ADA a Roma. A Palermo, invece, espone e si espone con un nuovo linguaggio artistico nonché con un nuovo ciclo, quello della pittura, densa di scarnificazioni, in quel suo permanente autoscatto di sé che rivela tutte le insidie di un nuovo percorso di ricerca appena avviato. Hernan, dal canto suo, è impegnato in una stratificata installazione. Astratta in quanto poggia sull’autonomia di un linguaggio grafico e cromatico che promana direttamente da una visione della geografia della Sicilia dall’alto, quasi satellitare ma senza il mare, immaginando solo terre emerse; figurativa perché quella dell’artista cileno è un’ars combinatoria densa di assonanze con gli azzardi letterari di Italo Calvino e di Georges Perec che restituiscono immagini immediatamente intellegibili, preludendo, però, a significati ulteriori, a diverse e non omologate chiavi di lettura del presente. Allo spazio reale della geopolitica contemporanea, l’arte continua a opporre così il tempo interno dei propri codici, fatti di distanziamento, d’intervallo e di irriducibile senso dell’utopia. Dulcis in fundo, il mio gancio Riccardo d’Avola mi mostra i lavori di un altro artista di istanza nello studio, Luca Cutrufelli, autore di una preziosa ricerca che comprende l’impiego di fusaggine, quindi cenere, o meglio ceneri, su fogli di carta di grande formato. Una materia difficile da maneggiare, ma che qui in Sicilia è diffusa, esito di una lunga e complessa convivenza “lavica”, soprattutto sul versante etneo dell’isola. Uno statement politico sui cataclismi mondiali. Così come nei due piccoli lavori realizzati da Riccardo d’Avola che lui stesso mi mostra al termine dello studio visit. Oggetti immaginari ottenuti da frammenti vegetali, misti a silicone e poliuretano espanso, nei quali lo spettatore possa immedesimarsi in un déjà vu, riconoscendone alcuni tratti familiari, però non riconducibili a un tempo o a un luogo precisi. Perché a Riccardo l’ibridazione tra natura e artificio interessa per stimolare l’inconscio dello spettatore mettendolo di fronte a immagini che lo seducano e, nel contempo, lo spaventino, lo spiazzino relegandolo a una condizione di incertezza e di impotenza di fronte alla natura, all’ingovernabilità dei suoi fenomeni. (Cesare Biasini Selvaggi)
  
   

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