13 luglio 2018

Pittsburgh, ritratto in bianco e nero

 
Al MAST di Bologna è in scena la visione di Eugene Smith sulla città industriale americana del secolo scorso. Guardata attraverso i fantasmi della sua oscurità produttiva

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Come sempre al MAST, una mostra dedicata alla fotografia impegnata nel configurare e interpretare le molteplici declinazioni della vita dell’industria, e il lavoro, il suo contesto, la sua storia, i suoi protagonisti. Una scelta di campo che forma il nucleo vitale di questa “Manifattura di Arti, sperimentazione e tecnologia”, i cui spazi sono tuttavia arricchiti da installazioni assai significative, si veda (e si entri in) Reach di Anish Kapoor, collocata nel 2017 all’aperto, incipit di un percorso che conduce all’arte della fotografia attraverso l’arte dell’architettura. 
Urs Stahel, curatore della collezione MAST, in collaborazione col Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, mette in scena alcune stampe relative all’immane e mitico lavoro di W. Eugene Smith su Pittsburgh, la città industriale più famosa del Novecento: la città oscura e affocata, sorta sulle ceneri delle migliaia di indiani democraticamente sterminati per far posto alle estrazioni minerarie e poi alla produzione dell’acciaio. 
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W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Area residenziale / City Housing, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 33.97 x 26.67 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh © W. Eugene Smith / Magnum Photos

Nato nel 1918 a Wichita, nel Kansas, Smith iniziò a fotografare e pubblicare a 16 anni, e poi a New York, freelance per l’agenzia Black Star Agency, collaborò per “Life”, “Parade”, “Time”, e molte altre riviste americane. John Berger, il narratore, disegnatore e critico d’arte, intensamente implicato anche nelle vicende della fotografia, in Pietà: W. Eugene Smith, scrive: “Il suo atteggiamento nei confronti delle parole, della musica, della sua stessa arte era essenzialmente religioso. Per lui l’arte era una specie di redenzione. Musica e parole facevano da contorno al dramma della ricerca della bontà. La fotografia rappresentava il suo modo di cercarla. Era un solitario. Era alla ricerca di una verità, che, per sua natura, non era palese (…). Il suo eccezionale uso del bianco e del nero era strettamente connesso al suo senso della vocazione. Attraverso l’oscurità Smith si appropria del mondo: lo trasforma in un cupo, terribile, teatro morale dove le anime cercano bellezza e redenzione (…)”. 
Del lavoro su Pittsburgh, la storia è questa: Stephan Lorant, regista e scrittore ungherese che nel 1938 aveva pubblicato Pittsburgh. The story of an american city (libro dalle molteplici edizioni), chiede a Smith, che nel 1954 aveva abbandonato “Life” e subito dopo le altre riviste e la sua stessa famiglia, di realizzargli in un paio di mesi dalle 80 alle 100 foto della città. Smith fotografa invece per circa tre anni e produce quasi 20mila negativi e 2mila stampe. Lorant aspetta per due anni. “Life” offre quindi a Smith 13mila dollari per i diritti d’autore e per pubblicare un così straordinario repertorio d’immagini. Smith però rifiuta l’offerta e pubblica infine su 36 pagine della rivista “Photography Annual 1959”, con un risultato che egli stesso definisce fallimentare. 
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W. Eugene Smith, USA, 1918-1978 Operaio di un’acciaieria che prepara le bobine / Mill Man Loading Coiled Steel, 1955-1957 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print 22.86 x 34.61 cm Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection. © W. Eugene Smith / Magnum Photos

Il merito della mostra di MAST, a guardar bene, è anche aver riaperto una riflessione su questo “fallimento”, avere rialzato il sipario su un grande fotografo alle prese con la propria fragilità, che anela tuttavia a un racconto totale, desideroso di affinarsi e divenire artista “solo” per essere migliore fotografo (un bell’insegnamento per chi oggi non sa un accidenti di fotografia ma la utilizza in virtù dell’essere “artista contemporaneo”). 
Tenendo in conto che la mostra è una selezione effettuata tra le 600 stampe del Carnegie Museum, essa ci sembra un reportage trasognato, a volte timido, spesso privo della forza di altri reportages di Smith, dove le immagini sono nitide, scolpite nella luce come fotogrammi di un set cinematografico. Forse è causa dello stesso “ritratto” di Pittsburgh, città anch’essa usurata, soffocata dai miasmi, infernale, sporca, nera. E affiora l’ovvio ricordo di Walker Evans, allora ed oggi modello di riferimento per la narrazione della grande provincia americana e delle periferie, che lavora con il grande formato per ottenere un paesaggio visivo ricco di dettagli e quindi d’informazioni. Eugene Smith invece qui produce immagini in piccolo formato vibrate da un micromosso che le rende stanche e, a guardarle adesso, generiche. Tuttavia, a rimanere impresse nella memoria, ad essere rilevanti per iconografia e significato, sono le stampe dove il soggetto si staglia in una struttura nettamente grafica e quelle, potentissime, in cui la nebbia, il fumo, il nero, rotti da lame di bagliori, sono assoluti protagonisti di una densità claustrofobica, materica e luminosa, intrisa di una sofferenza insopportabile e intraducibile.
Eleonora Frattarolo

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