18 luglio 2018

Non c’è dignità per la cultura

 
Ancora sul chiacchierato decreto, ma pensando alla valorizzazione dell’industria culturale e del suo indotto. Argomento sul quale regna il più abissale silenzio

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Ormai è legge. Il Decreto Dignità, di cui abbiamo già parlato nei giorni scorsi, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nelle scorse ore, ed è quindi entrato in vigore a tutti gli effetti. Pronto per essere convertito in legge – entro i prossimi sessanta giorni – dopo il vaglio delle due camere, che ne dovranno esaminare i contenuti, suggerendo qualche eventuale ritocco. Salvo ricorso al voto di fiducia da parte del governo, che renderebbe il provvedimento immune a qualunque modifica non ritenuta gradita alla maggioranza. Anche se il vice premier Luigi Di Maio – autore e sostenitore della legge – ha detto più volte di non voler imporre alcuna fiducia, evidenziato comunque la ferma volontà di mantenere l’attuale struttura del provvedimento. Evitando che possa essere “annacquato” durante l’iter parlamentare. Il testo rimarrà quello attuale, dunque. Salvo colpi di scena. Ed è quindi opportuno ripercorrerne i contenuti. In nome della cultura, più che della (presunta) dignità, evocata nel provvedimento. Sì, perché nel testo di legge che si prepara ad approdare alla Camera dei Deputati (l’approdo nelle prime Commissioni Finanze e Lavoro era previsto per ieri, martedì 17 luglio), tra le varie misure è previsto la totale abolizione di ogni forma di pubblicità dei giochi d’azzardo. “Diretta o indiretta”, recita a norma. Includendo, espressamente, anche le sponsorizzazioni di manifestazioni ed eventi, anche di carattere culturale. 
Sul fatto di voler intervenire per arginare un fenomeno che, secondo il ministro, provoca danni enormi a cittadini e famiglie, causandone l’impoverimento, nulla da eccepire, per carità. Qualche dubbio, semmai, è lecito sollevarlo rispetto al modo con cui si intende perseguire questo obiettivo. Lungi da noi giudicare la legittimità o la possibile anomalia di un divieto imposto a un “prodotto” gestito ed offerto direttamente o indirettamente dallo Stato, com’è appunto il gioco. Visto che lo stesso avviene con le sigarette: anche queste gestite dallo Stato, ma non (più) reclamizzate in nessuna forma. Quello che meno convince e per lo più spaventa, tuttavia, è l’inclusione di questo tipo di divieto anche per le iniziative culturali e, quindi, anche per le manifestazioni artistiche o di qualunque altro tipo. Proprio adesso che alcune società di gioco attive nel nostro Paese avevano pensato bene di destinare parte dei loro proventi proprio alle attività di carattere culturale, oltre a quelle sociali, finanziate già da tempo. Scatenando così un dibattito che forse da sempre appartiene al mondo dell’arte, pur essendo stato sepolto fino a qualche tempo fa. Almeno dalle nostre parti. 
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Aldo Mondino, Pinguini, 1963, tecnica mista e collage su masonite, cm 180×130
Forse anche perché, diciamolo pure, il supporto di certi marchi del gioco alle manifestazioni culturali, o alle operazioni di restauro o alle semplici mostre, avvenivano in maniera decisamente sostenibile. Chi ha recentemente seguito Manifesta a Palermo, dove tra gli sponsor risultava anche una nota società italiana di gioco (che evitiamo di citare, giusto per fare pubblicità indiretta, in linea con la ratio del nuovo decreto), avrà potuto ammirare la “sobrietà” di questo contributo. Pur apprezzandone, tuttavia, i benefici in termini di servizio e di valore aggiunto alla comunità. E le stesse osservazioni si potrebbero fare per tante altre iniziative, più o meno recenti, sostenute dalle principali società di gioco attive in Italia. Senza invasioni sproporzionate, né alcun invito – implicito o esplicito – a giocare (e ci mancherebbe altro!). 
Solo campagne di “branding”, come dicono i marketer o gli addetti al settore pubblicitario. Come del resto fanno tante altre grandi aziende, il cui valore etico o sociale non sempre potrebbe risultare immune da critiche alla pari di quelle rivolte alle società di gioco. Basti pensare al legame, più che longevo, tra il mondo dell’arte e l’industria degli alcolici, esaltato dalle campagne del Campari affidate ai futuristi (è noto che il design dell’intramontabile bottiglia del popolare alcolico rosso italiano è opera di Fortunato Depero) o a quelle di varie etichette internazionali che si fregiavano di illustrazioni di un illustre pittore come Toulouse-Lautrec. E tanti altri esempi si potrebbero elencare, coinvolgendo anche altri settori tecnicamente “a rischio”. Ma non secondo il governo italiano, evidentemente, che nel proprio invito legislativo alla “dignità”, include soltanto il gioco d’azzardo. Come se le altre attività a rischio dipendenza non comportassero alcuna minaccia alla salute degli italiani, né tanto meno alla loro dignità. Anche se i danni provocati dall’alcol sono sotto gli occhi di tutti e pure ben più frequenti e importanti rispetto a quelli del gioco, ma tant’è.
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Alighiero Boetti, Senza Titolo, 1968. Inchiostro e adesivi colorati su carta intelata, 70 x 100 cm. Courtesy Tornabuoni Arte, Firenze/Milano/Venezia/Portofino/Forte dei Marmi/Parigi.

Certo, dicevamo poc’anzi, il dibattito sui valori etici e i legami con la cultura non è nuovo e neppure un tema esclusivamente italiano. Anzi. Esiste, e da sempre, in tutti i Paesi. Solo che ognuno lo declina e lo risolve in modo diverso. Viene alla mente, per esempio, l’eterno bailamme che riguarda la Tate di Londra e il lauto finanziamento ricevuto da una nota compagnia petrolifera, che ha da sempre alimentato polemiche tra i perbenisti dell’arte, trovando risposte nel pragmatismo liberista di chi considera sacrosanto il finanziamento a tali attività, al di là della provenienza, purché lecita. Sottolineando che se si nutrono dubbi sulla sostenibilità o eticità di una determinata attività economica, la risposta “politica” è da individuare nell’eventuale abolizione di quella stessa attività, non nell’impedimento delle aziende coinvolte nel promuovere i loro brand, visto che il danno maggiore sarebbe per le organizzazioni che ricevono tali contributi. Ma di certo il Regno Unito non si è mai sognato di intervenire vietando certe operazioni: e non lo farà certo contro l’industria del gioco nei confronti della quale, al contrario, applica un principio ben diverso e senz’altro più concreto. Avendo introdotto un meccanismo chiamato delle “good causes” che prevede il finanziamento di sport e cultura attraverso un contributo diretto di queste attività. Sempre, però, sotto a precisi criteri, anche piuttosto rigidi, sulla libertà di azione promozionale delle aziende di gioco. Con un controllo ferreo sulla responsabilità di impresa, sulla tutela dei consumatori e sulla prevenzione delle dipendenze. 
Tutto questo per evidenziare soltanto l’apparente superficialità di un approccio di questo tipo, come pure la sua pericolosità. Visto che, procedendo di questo passo, si andrebbe incontro al rischio di veder proliferare divieti su divieti, coinvolgendo magari sempre più settori economici e produttivi e andando quindi a sottrarre nuove e ulteriori risorse (anche) all’industria culturale, che in Italia sopravvive, e con immani difficoltà, proprio grazie ai finanziamenti dei privati. Ed ecco un’altra riflessione che ci sentiamo di consegnare al nuovo governo. Che possa dare davvero dignità a questo Paese, e alla sua cultura. Anche valorizzando e potenziando l’industria culturale e il suo indotto. Cosa di cui non si sente ancora oggi parlare. 

Alessio Crisantemi

1 commento

  1. Possibile che non si riesca mai a pensare ai veri problemi di un paese? Invece di costringere le aziende dell’azzardo, semmai, a investire sulla cultura, blocchiamo le sponsorizzazioni..ma intanto si gioca lo stesso. Roba da matti! Anzi, da italiani!!

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