14 agosto 2018

Il deserto e il fiume: note da Yinchuan

 
Ecologia come strumento di analisi politica e sociale, distanziandosi dall’idea “monolitica” della Cina: ecco la seconda Biennale della penultima città sulla via della seta

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Non c’è storia se non nel deserto. Perché proprio il luogo che si mostra come immutabile, indecifrabile e perennemente uguale a se stesso è invece il più fluido degli spazi, costantemente rimodellato e rimodellabile pur conservando al suo interno la genealogia segreta di itinerari secolari. È questa doppia natura a rendere il deserto il simbolo per eccellenza della seconda Yinchuan Biennale, inaugurata lo scorso 9 giugno e visitabile fino al 19 settembre prossimo.
Ciò che distingue questa Biennale dalle altre sul territorio cinese è il prendere le distanze da un’importazione sterile per calarsi profondamente nel territorio. Territorio diversissimo da quell’idea di una Cina monolitica come spesso immaginata in Occidente: Yinchuan, capitale della regione di Nigxia, è stata la penultima tappa della via della seta, incastonata fra la cultura rurale che prolifera intorno al Fiume Giallo e quella nomade e sciamanica che penetra dalla Mongolia e dal Centro Asia attraverso il Deserto del Gobi. Zona permeata di minoranze etniche e religiose in storico contatto con l’Occidente, costituendosi come una densa parete osmotica a nordovest della Cina.
Qui, nella periferia di una città di per sé tutt’altro che turistica, viene fondato nel 2015 un immenso museo di arte contemporanea, il MOCA, che diventa fin da subito sede e ente promotore della Biennale omonima, che vede come primo curatore Bose Krishnamachari. A declinare la tematica principale in un discorso artistico e politico viene ora chiamato Marco Scotini, che nella sua ricerca si è sempre occupato di ecologia come strumento di analisi politica e sociale, con una particolare attenzione all’ibridazione fra Occidente e Oriente.
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Robert Zhao Renhui, installation view of 3 works
Insieme al team curatoriale composto da Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah e Lu Xingha, Scotini elabora un discorso che si articola a partire da ricerche sul campo e che non può, quindi, non affondare le proprie radici nella narrazione grandiosa e complessa del deserto. Starting from the Desert è il titolo di questa edizione, a indicare non solo le specificità topografiche locali, ma anche un tipo di produzione di conoscenza che vuole farsi fluido, mai uguale a se stesso. Agli stessi principi si rifà il sottotitolo, Ecologies on the Edge, dove, sulla scorta di Felix Guattari, le ecologie sono declinate al plurale. Infatti, se le condizioni geografiche e sociali sono al limite (on the edge, appunto), non è più possibile fermarsi su un solo piano, ma bisogna considerare le interconnessioni e le trasversalità fra l’ambiente naturale, le soggettività che lo abitano, le lingue, le conoscenze, eccetera.
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Ningxia Museum, Rubbings, installation view
La stratificazione degli argomenti e delle narrazioni porta la Biennale ad articolarsi in quattro aree tematiche interdipendenti e parzialmente sovrapposte, che pongono in dialogo costante gli oltre novanta artisti distribuiti nei 15mila metri quadrati del MOCA e in molti altri spazi limitrofi. Nomadic Space and Rural Space indaga l’interazione fra l’ambiente fisico e le forme di vita che vi proliferano, presentando lavori come quello della slovena Marjetica Potrč, che ricostruisce una casa contadina tradizionale con materiali raccolti fra campagna e mercato popolare, assieme agli alloggi nomadi di Shiva Gor, le yurte di Enkhbold Togmidshiirev e le architetture fantasmatiche di Kiluanji Kia Henda. Il superamento del binarismo natura/cultura viene affrontato, nella sezione Labor in Nature and Nature in Labor, dall’opera militante di artisti e attivisti come Navjot Altaf, che, sulla scorta di una collaborazione ventennale, documenta e denuncia la condizione delle comunità indigene indiane costrette a lavorare nelle stesse miniere che ne hanno distrutto i villaggi natali; oltre al lavoro di Altaf, non si possono dimenticare le colonie agricole utopiche di Can Altay, quelle di Raphael Grisey e Bouba Touré, le ricerche sul mais di Mao Chenyu e di Xu Tan. Dedicata all’ecologia mentale della trasmissione di conoscenza è invece la terza sezione, The Voice and the Book, dove la voce profonda di Demetrio Stratos si unisce alle enormi lettere scultoree di Vyacheslav Akhunov che danno forma e corpo a slogan sovietici. Ancora: Minorities and Multiplicities, ultima area tematica, non si limita prendere in esame la produzione artistica di minoranze etniche o culturali, ma dà voce a un alternativo modo di intendere l’associazione fra viventi, basato sull’identità tanto quanto sulla condivisione. Ottimo esempio sono i filari di pioppi allocati all’esterno di Zheng Bo, che delineano la frase Earth Workers Unite, o infine la mappa delle minoranze linguistiche realizzata a gessetto sulla lavagna da Mariam Ghani.
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Nikhil Chopra, installation view, section nomadic space and rural space
Così suddivise (concettualmente ma non spazialmente), le opere si mescolano con i quadri originali dei pittori contadini di Huxian, con le testimonianze di un’ibridazione storica e culturale con l’Occidente (le fotografie dell’Ottocento di Felice Beato e il ritratto dell’imperatore Qianlong realizzato dal monaco missionario gesuita Giuseppe Castiglione a metà del Settecento) e non da ultimo con le performance che animano la giornata dell’opening di Li Binyuan, Justin Ponmany, Arahmajani, Ho Rui An. Questa molteplicità di fonti e di mezzi trasforma l’intera Biennale in un archivio vivente e respirante, in cui l’atto conoscitivo si mantiene costantemente dialettico, generando un numero potenzialmente infinito di narrative. L’impressione è quella di un fiume, di un fluire continuo di significato che pervade l’intero spazio del museo senza articolarsi intorno alla costellazione di artisti più conosciuti come Kimsooja, Song Dong e Alighiero Boetti, ma mantenendo un’intensità straordinariamente omogenea.
Proprio come la vita nel deserto, capace di trattenere la propria archeologia e insieme perennemente trasformata e trasformabile, la seconda Yinchuan Biennale propone un modello di produzione di conoscenza rizomatico, in cui le associazioni di significato non trovano ostacoli o rigidità categoriali, ma si propagano, si contaminano, rimangono fluide (basti pensare alle critiche del museo d’arte in Liu Ding e del museo di storia naturale in Robert Zhao Renhui). 
E se itinerante è l’approccio al contenuto, itinerante deve essere anche il suo pubblico, disposto ad abbandonare i percorsi conosciuti e a costruirne di nuovi, con un approccio libero e profondamente nomade allo studio delle tracce e del loro costituirsi in narrazioni. Con le parole di Scotini durante l’inaugurazione: “io vorrei che tutti noi qui presenti fossimo ricordati come nomadologi”.
Valentina Avanzini

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