16 agosto 2018

L’intervista/ Alessandro Sciarroni

 
IL COREOGRAFO ADOTTATO
Ispirazioni, progetti e passioni di uno dei “non-danzatori” più celebri d’oggi, che si racconta a Exibart

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Italo Calvino, nella sua “lezione americana” dedicata all’esattezza, parla dell’universo e del suo precipitare nell’entropia, individuando “zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva” e definisce l’opera letteraria come “una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo”. Don’t be frightened of turning the page, lavoro di Alessandro Sciarroni che abbiamo visto all’interno della 48ª edizione del Festival di Santarcangelo, e a Demanio Marittimo km.278, fa pensare a una poesia.
Nella sua lezione, Calvino, illustra due modelli di formazione degli esseri viventi che sono il cristallo e la fiamma e si sofferma su “la giustapposizione di queste due figure (…) due forme di bellezza perfetta da cui lo sguardo non sa staccarsi, due modi di crescita nel tempo, di spesa della materia circostante (…)”. 
È un tempo prezioso quello in cui il performer invita lo spettatore che si colloca tra a perfezione del cristallo e “l’incessante variazione interna” della fiamma, per dirla con Calvino. Un ventaglio di visioni e paesaggi che si materializzano sulla scena e che si giustappongono a quelle personali di chi osserva e si perde in uno spazio pieno e affollato dove, in realtà, c’è un corpo da solo che gira su se stesso. Il valore del lavoro si trova oltre il gesto, eseguito con esattezza magistrale, ed è proprio in quel tempo che crea e in cui lo spettatore è invitato a stare. Una condizione rara e che lascia traccia una volta che si torna al tempo convenzionale. Partendo da un gesto fisico e dall’osservazione dei movimenti migratori di alcuni animali, Alessandro Sciarroni con la sua presenza forte e delicata allo stesso tempo, compone una poesia che non parla ma è un tutt’uno con quello che racconta, facendo uscire lo spettatore, per un momento, dall’inevitabile entropia.
Abbiamo incontrato Alessandro Sciarroni a Santarcangelo per parlare del suo rapporto con la danza e del progetto Turning, di cui il lavoro presentato fa parte.
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Come è avvenuto il tuo incontro con la danza?
«In realtà io non sono un danzatore. Ho lavorato per dieci anni con la compagnia Lenz Rifrazioni di Parma e fino al 2006 sono stato un attore. Dal 2007 ho iniziato a fare i miei lavori e ho cercato di propormi nei circuiti di teatro contemporaneo e anche nelle gallerie d’arte, ma il mio linguaggio per il teatro era troppo minimalista e per le gallerie, allora, era troppo barocco. Mi hanno, poi, consigliato di provare a mandare i miei lavori nell’ambito della danza contemporanea. Da lì in poi è iniziato tutto ed è come se quel mondo mi avesse adottato».
Cos’è per te il lavoro coreografico oggi?
«Da adottato posso dire che il lavoro coreografico può essere davvero tante cose e questo mi piace, non esiste un contenitore così accogliente e così ampio come la danza contemporanea. Se poi vogliamo parlare da un punto di vista personale rispetto alla mia ricerca mi piace molto la definizione che di danza da Wikipedia Italia – anche perché è una cosa che tutti possiamo andare a modificare- “la danza è un’arte performativa che ha come base il movimento del corpo umano. Questo movimento può essere organizzato in un sistema che si chiama coreografia e che può essere prestabilito o improvvisato”. Se si guarda la danza da questo punto di vista può essere veramente tante cose».
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Alessandro Sciarroni, Demanio Marittimo 2018
Molti dei lavori che hai fatto sono stati realizzati per tappe, cosa ti affascina di questo modo di lavorare?
«Il progetto Turning, di cui fa parte Don’t be frightened of turning the page, l’assolo che ho portato a Santarcangelo, rientra questa modalità. Turning vuol dire girare, ma vuol dire anche cambiare e vuol dire anche evolvere. All’interno della ricerca era intrinseca la possibilità che i materiali stessi cambiassero e venissero esplorati in diverse versioni. Ne abbiamo, infatti, fatta una per il Balletto di Roma, una per il balletto dell’Opera di Lione, una per la Biennale di Venezia, il mio assolo e una versione per la danzatrice Marta Ciappina. In questo caso mi piaceva che in ogni versione ci fossero oltre a interpreti diversi anche musicisti diversi e light designer diversi, che a partire dagli stessi materiali provassero a interpretare in maniera personale quello che per me era il punto di partenza».
Cosa ti ha portato alla scelta di essere da solo sul palco?
«Dal punto di vista cronologico ho iniziato andando in uno studio e provando a girare da solo, perché non volevo avere influenze di alcun tipo. Tutti mi parlavano della danza sufi, io sinceramente non volevo averla come punto di partenza e non mi sono voluto informare sulla tecnica. Sono andato in studio e mi sono messo da solo a fare ricerca, a trovare, ad esempio, una maniera per non stare male o una maniera per acquistare velocità. Questi materiali sono rimasti sospesi per tanto tempo, c’è stato, poi, il lavoro con il Balletto di Roma, la Biennale di Venezia e quello con l’Opera di Lione. Una delle ultime questioni che avevo lasciato da affrontare era l’assolo. È stato quindi partire dal lavoro in solitaria, capire quale era la tecnica, insegnarla e poi tornare di nuovo su di me per chiudere un po’ tutto».
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Alessandro Sciarroni © Tani Simberg
Perché affrontare proprio la pratica di ruotare su se stessi?
«Era un momento in cui volevo fare degli spettacoli che avessero come oggetto soltanto un’indicazione. Avevo avuto una commissione per un progetto europeo che si chiama “Migrant Bodies” che si svolge tra l’Europa e il Canada e il tema era, appunto, la migrazione. Sono rimasto particolarmente colpito da quella degli animali. Sono andato in Canada a vedere quella dei salmoni. Nascono nei fiumi, subiscono la prima metamorfosi critica per arrivare all’oceano dove vivono gran parte della loro vita, poi, quando sentono che stanno per morire, subiscono un’altra metamorfosi per tornare all’acqua dolce. Cominciano a risalire i fiumi, le cascate e arrivano, infine, esattamente dove sono nati, per poi riprodursi e morire. Ho cominciato a pensare a questo movimento circolare. Ovviamente vedendo lo spettacolo non si pensa ai salmoni, alle cicogne, agli uccelli migratori, ma questo è stato il punto di partenza».
Qual è il tuo rapporto con la musica?
«In realtà sono abbastanza ossessivo. Mi piacciono tante cose, ma non tantissime, ma quelle che amo mi piacciono fino allo sfinimento. Per me la musica è fondamentale nel lavoro, perché, oltre a scrivere il paesaggio, da anche il ritmo dell’azione. In Don’t be frightened of turning the page se non ci fosse la musica tutto lo sforzo fisico che c’è nel lavoro non sarebbe possibile. Ho provato a farlo senza musica ma non funziona, è come se mi aiutasse a vedere le cose che immagino durante il lavoro».
Mi fai una playlist di 5 brani che ti accompagnano:
5. Breezy Conor Oberst (Che è il cantante dei Bright Eyes, al quale sono molto legato)
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Alessandro Sciarroni © Tani Simberg
Qual è il tuo rapporto con le immagini?
«Le arti visive, quando le ho scoperte, sono state la mia prima folgorazione. Non ho mai studiato storia dell’arte alle superiori ma, l’ultimo anno di scuola, ho avuto il classico insegnante tipo “attimo fuggente” che ti cambia la vita. Questa professoressa era anche un’attrice, dopo questo incontro ho deciso di studiare lettere moderne. Il primo esame che ho dato è stato storia dell’arte medievale. È lì che ho scoperto l’arte, alla fine sono passato a conservazione dei beni culturali. Vengo per ciò da una formazione in arti visive, non ho mai studiato storia del teatro o della danza, ho un rapporto un po’ naïve con questa materia, mentre con le arti visive ho un rapporto più completo. Ventidue anni è stata l’età in cui ho scoperto delle cose che poi mi hanno accompagnato per tutta la vita, soprattutto il lavoro di fotografi. Primo fra tutti quello di Diane Arbus, ma anche Nan Golding. All’università mi appassionava molto la performance art degli anni ’70 fatta da artisti visivi, ero convinto che fosse un punto di unione tra il mondo delle arti visive e quello del teatro di ricerca. In realtà dieci anni fa, quando ho iniziato io, questo punto di unione non c’era, erano due mondi molto distinti e mi ricordo benissimo che le arti visive guardavano con sospetto al mondo del teatro e della danza, per loro era troppo barocco. Adesso è cambiato tutto i musei programmano la danza contemporanea perché hanno capito che porta pubblico. Sono curioso di vedere che cosa succederà nei prossimi dieci anni, è una specie di rivincita».
Puoi dirmi qualcosa sulle immagini che produci tu, anche in relazione alla mostra 41 pensata per l’edizione del 2017 del festival organizzato da Centrale Fies a Dro?
«Ho iniziato a scattare nell’età in cui ho scoperto l’arte, poi mi sono un po’ impigrito con l’arrivo del digitale. L’anno scorso Centrale Fies mi aveva chiesto una mostra, i curatori si aspettavano, forse, più qualcosa sul mio lavoro performativo, invece io ho tirato fuori queste immagini che quasi nessuno aveva mai visto. Alcune immagini, che mi ritraggono come soggetto, le ho rubate dall’album della mia famiglia, altre, la maggior parte, sono state scattate all’interno di musei di storia naturale o musei delle cere, dove c’è una natura organizzata e un sistema rappresentativo molto forte e altre ancora fanno parte della mia vita personale. Abbiamo messo in scena un contrasto potente tra ciò che viene rappresentato e organizzato e qualcosa di molto personale».
Paola Granato

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