01 settembre 2018

Festival di Venezia/2. Viaggio nell’orrore, senza splatter. Ecco Suspiria, di Luca Guadagnino

 

di

«Forse, voi americani non avete capito cosa è successo qui trenta anni fa», dice la maestra di danza all’allieva, prima della audizione. Berlino Ovest, a ridosso del muro, 1977. Una compagnia di danza esegue spettacoli, produce danza, insegna l’uso espressivo del corpo a sole donne. Che sono ospitate in un edificio di fronte a quello del teatro, gratuitamente. Una nuova danzatrice americana dell’Ohio, Susie Bannion – interpretata da Dakota Johnson – irrompe sulla scena, conquistando in meno di una settimana sia il posto nella compagnia Markos, sia il ruolo di prima ballerina nella pièce Volk, infine la fiducia della coreografa Blanche, icastica e iconoclasta, interpretata da Tilda Swinton
Blanche ha una sola regola, prendere tutto ciò che è dolce, frivolo, seducente e cancellarlo dalla danza. Damien Jalet, che ha curato la coreografia, ha dichiarato esplicitamente in conferenza stampa che questo è stato il suo manifesto. A partire da una frase di Goebbels, la danza deve essere dolce, frivola, leggera e fare dimenticare tutto. Frase che il coreografo francese ha deciso di negare con tutte le sue forze. Evocando Martha Graham, Pina Bausch e tutta la danza d’avanguardia dagli anni settanta in poi. Dunque, mentre i fantasmi del nazismo non sono sopiti e le danzatrici danzano, vivono insieme, non esenti da paure, gelosie, amori e ritrosie, fuori accade l’impensabile. Il terrore, le bombe, la deviazione dalla passione politica verso un gioco di morte. Il dirottamento dell’aereo, le bombe in banca, una classe dirigente ancora formata da ufficiali nazisti in fretta reintegrati nel nuovo corso, per nulla interessati a risolvere i propri casi, semmai irretiti dagli stessi demoni delle danzatrici. Dal terrore nemmeno l’arte è esente. 
Solo, nell’arte si sposta il dramma dal piano politico a quello estetico e questa è la sfida del film. Perché la tirannia dell’artista al lavoro può anche essere molto peggiore di quella del terrorista in preda al suo delirio politico. E questo gesto estetico è forse la chiave di lettura più semplice per entrare nel film. Cancellare ogni seduzione, anche del genere horror, non fare un documentario sugli anni settanta, non disegnare lo spazio della critica sociale, invece liberare il sogno e l’inconscio. Luca Guadagnino ci invita ad attraversare tutti i nostri incubi e a liberarci della matrice oppressiva delle categorie estetiche ed estatiche sbrigative e troppo facili. La magia nera, il satanismo, le maschere splatter, sono tutte superate dalla danza. Lo spazio riservato alle maschere e alle deformazioni cruente è nullo per la potenza coreografica e per la grande maestria dei movimenti di macchina e del montaggio, mentre la grammatica cinematografica è semplificata e rarefatta al punto di ribaltare nel suo contrario il cliché del film horror, ovvero tanto sangue, montaggio affastellato e ossessivo, leit motiv insistente, ripetitivo e inebriante.
Thom Yorke, direttore e autore della colonna sonora, dice proprio questo, ho per prima cosa detto no alla ripetizione ossessiva del motivo di Suspiria di Dario Argento. Tutto qui danza, in un salto dove conta lo spazio sospeso in alto più che la distanza da terra . In questo gioco di doppie elisioni Guadagnino fa danzare i suoi feticci e li libera in un autentico manifesto del suo cinema. Libera anche tutto il potenziale inespresso del film di partenza. Incrociando tutti i linguaggi senza forzature. Pensate a Fassbinder, a La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf, 1973) come ha dichiarato apertamente in conferenza stampa Guadagnino, pensate alle prime performance di Marina Abramovic, ai manifesti di critica e curatela di Lea Vergine, allo sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Questo è il contesto, il genere horror è una maschera per potere veicolare l’orrore che prende al collo quando il fascismo è evocato con nostalgia, le conquiste calpestate con noncuranza, quando l’ubriachezza da immagini riciclate risveglia ogni forma di fantasma dai sotterranei della storia, quando i sensi di colpa vengono scambiati per redenzione. E il popolo si lascia guidare più dai propri fantasmi che dalle proprie legittime aspirazioni. 
Il grande merito di Guadagnino è di non varcare mai la soglia del suo immaginario, e di mantenersi al limite inferiore, interno, della metafora, senza pretendere di consegnarci morali risolutrici, limitandosi a qualche indizio. E senza nemmeno dire che l’arte salva. O che la bellezza salverà il mondo. Attorno a questo nucleo narrativo centrale, il regista Luca Guadagnino con lo sceneggiatore David Kajganich, costruiscono un mosaico diviso in sei capitoli, giocato su due piani narrativi, ciascuno dei quali si rispecchia nel suo doppio: la cronaca del terrorismo riflessa nella la vicenda della danza e delle danzatrici, le indagini poliziesche cui corrisponde l’indagine di uno psicanalista a tratti Jungiano a tratti Freudiano, fino al punto culminante in una danza nei territori dell’inconscio, vera sintesi e unico omaggio al film di Dario Argento. Luca Guadagnino non mette in scena non una lotta fra il bene e il male, ma quella fra il riduzionismo spettacolare e il gioco poetico libero e ispirato, che alla fine vince, con grande sforzo. 
Come unica avvertenza, prima di tutto, prima di pensare di comprare il biglietto, o di scaricare il film, dimenticate Suspiria di Dario Argento. Davvero. Pensate a un saggio sull’amore, sulla passione, sul cinema e sull’arte, infine sul movimento, di macchina e di cuore, piuttosto. Se siete disposti a seguire il discorso libero indiretto di un regista alle prese con danza, musica letteratura e arti visive, accomodatevi. Se cercate un remake splatter, cambiate canale. Anche perché la produzione Amazon Studios lascia pensare che forse lo vedrete non solo al cinema. (Irene Guida)

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui