06 settembre 2018

Festival di Venezia/6. Lo faccio perché posso farlo, ovvero l’arte salva solo il migliore: “Opera senza autore”

 

di

Dresda, 1937.

Una giovane donna, in primavera, accompagna il nipotino a vedere il museo di arte moderna, già presidiato da una guida nazista che si occupa di raccontare l’arte secondo i canoni del regime.

Prima di tutto l’arte moderna è degenere perché ritrae le donne come prostitute, in secondo luogo chiunque potrebbe farne, guadagnando più del salario di un operaio tedesco in dieci anni. Per queste ragioni l’arte moderna troverà presto la sua degna fine.

La notte dei cristalli è lontana meno di dodici mesi, e infatti sia il bambino che la donna dovranno partecipare e presenziare adunate naziste, vestire uniformi, inneggiare a Hitler.

In famiglia lo scetticismo per Hitler è molto forte, tanto che per visitare la giovane donna nel frattempo finita in un ospedale psichiatrico in seguito a un episodio di autolesionismo, il padre grida Drei Liter invece che Heil Hitler, nell’ilarità dei familiari.

Il gas al posto dell’acqua. Noi vediamo la giovane donna cadere, senza sangue, senza nessun commento, così davanti a noi. Come cade, da un albero, una foglia secca.

A dirigere le operazioni di sterilizzazione, e a decidere chi si salva e chi no, è il ginecologo più bravo di tutto l’impero tedesco, il ginecologo personale di tutti i gerarchi e SS onorario a sua volta.

La guerra finisce, gli anni passano. Dopo avere lavorato in Germania Est, e prima dell’erezione del muro, il bambino, cresciuto fra bombardamenti e morti, più familiari che giochi e studio, esegue manifesti di propaganda per il partito comunista in una Germania che è libera nella misura in cui è occupata dall’Unione Sovietica. Il nostro giovane artista incontra una donna la cui casa è l’unica, misteriosamente, a non essere stata bombardata in tutta Dresda, infine con lei scappa a Dusseldorf, in Germania Ovest. Dove a discapito dell’età, trova un maestro. Il maestro somiglia a Joseph Beus. L’allievo somiglia a Gerhard Richter.

Il regista è Florian Henckel von Donnesmark. Probabilmente sta affrontando i fantasmi della sua vita familiare, appartenendo a una famiglia nobile prussiana di grandi industriali, che ha perso tutto con la sconfitta di Hitler e l’occupazione russa della Germani Est. Dopo Le Vite degli Altri, von Donnesmark torna a parlare del vero fantasma che ancora gira in Europa. Meglio torna a nasconderlo. Infatti, l’opera d’arte, massima espressione di soggettività, e la sopravvivenza, sono garantite solo al migliore, a chi può fare tutto perché non sbaglia nulla. Sebbene il protagonista e l’antagonista siano opposti, l’unico tratto che li unisce e li separa è questa morale da super – uomo.

In questo dramma familiare dell’alienazione, a salvare è l’arte. L’arte medica per il gerarca, l’arte della pittura per l’artista, l’arte del linguaggio per il regista. Il film è impeccabile, è bello, dice tutta la verità possibile. Attraversa tutta la storia dell’arte del Novecento, tutte le teorie artistiche e quelle dei media e della propaganda, con una velocità e proprietà strabilianti. Le musiche sono di Max Richter, la fotografia è del più grande fotografo vivente, il montaggio non fa una grinza, gli attori sono un fenomeno. Il finale è inclusivo e tranquillizzante. L’arte e la verità salvano. Ma non la verità storica, la verità soggettiva che spinge a trovare se stessi. E a fare tutto quello che possiamo. Questa è la morale.

Personalmente ha fatto male lo stomaco dalla sequenza della camera a gas in poi, pensando a chi, perché era senza arte, o perché non ha voluto, non si è sottratto alle camere a gas. La morale Heideggeriana della oggettività e della verità delle cose, della bellezza nell’oggetto non dovrebbe avere diritto di cittadinanza dopo lo sterminio, e invece siamo ancora là. E il film è bello nella misura in cui è inquietante e perverso, nonostante il lieto fine, la bella famiglia, l’arte che salva. Non c’è empatia nemmeno in un taglio. In compenso c’è Yves Klein, Fontana, Duchamp, Kandisky, Grosz e Brecht, ci sono tutti, ma proprio tutti. In una versione oggettiva e purovisibilista che a me spaventa.

Siamo proprio sicuri che la via che salverà il mondo sia l’efficienza tecnologica del sé? Che in fondo avere fatto un po’ di pulizia sia un bene, o un male rimediabile? Siamo proprio sicuri che non possa accadere di nuovo, a noi che qualcosa la sappiamo fare bene? Siamo proprio sicuri che la Storia sia un’Opera senza Autore? Questa è la domanda per Florian Henckel von Donnesmark. (Irene Guida)

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