08 settembre 2018

Festival di Venezia/11. Intervista più che esclusiva a Lutz Ebersdorf a proposito di Killing

 

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Il cast di Luca Guadagnino è andato via ma abbiamo incontrato Lutz Ebersdorf con sua moglie all’Harry’s Bar, e non abbiamo potuto fare a meno di fermarlo*. 
Per chi non abbia seguito le vicende legate a Suspiria, una aspra polemica, di quelle da ultimo sangue, si è aperta sulla reale identità di Lutz Ebersdorf. Ebbene, Lutz Eberdorf è vivo e fa il turista, come tutti a Venezia. Ha concesso a noi una intervista speciale, in cambio di una serie illimitata di drink. C’è un crowdfunding aperto per rientrare nelle spese. 
Questo vecchio signore è molto imbarazzato e soprattutto è abituato a farle, le domande, non ha voluto fotografie, quindi ci accontentiamo di quella del set. Abbiamo dovuto investire una certa quantità di Bellini per farci dire qualcosa e, avendo ordinato solo un’acqua tonica, restare al passo dei suoli voli pindarici non è stato facile, ma questo è il nostro racconto. 
Quando il primo cameriere è arrivato sorrideva solo la moglie, avevano appena visto il film di Shinya Tsukamoto, Killing. Recitando la parte di uno psicoanalista in Suspiria, ed essendo stato ucciso egli stesso nel film, gli abbiamo chiesto di commentarlo. 

Killing è un film sulla difficoltà di diventare adulti? Di uccidere i padri?
«No, Killing è un film sulla difficoltà di essere artisti. L’arte è proprio come un delitto. Se pensi al perché lo fai, sicuramente non lo farai. L’arte non deve avere altro motivo che la purezza dell’intenzione, che per il samurai deve essere uccidere, per l’artista mettere al mondo qualcosa che cambi gli altri, vuole dire uccidere quello che pensi, farlo vivere fuori di te. Per me è questo che Killing vuole dire». 
Ma lei non è stato disorientato da un film che all’inizio sembra il remake dell’Ultimo samurai, potrebbe virare verso Kurosawa, e invece rimane di nuovo un film di trincea? 
«Guardi, non mi faccia domande da cinefili. Del resto, nel film si vede il giovane samurai che non riesce a uccidere e si ammazza di quelle che voi chiamate “seghe”, si dice così, in italiano, vero? Ecco, i cinefili sono tutti un po’ così. Guardi questa folla di irati cani da celluloide: stanno là, tutto il giorno, che aspettano, aspettano, aspettano, chi? Cosa? Sono proprio come il giovane samurai che non ha il coraggio di uccidere, di fare quello che è, di stare al mondo. Non mi sono presentato alla mostra per questo. Una tomba, non è la vita, quella. Tornando alla sua domanda, dovesse poi implicarmi in qualche scandalo e dire che io sono stato violento, per favore, dimenticate Freud e Jung, vivete. Abbiamo visto una intera biennale dedicata al libro rosso di Jung (si riferisce forse a quella di due edizioni fa? n.d.a). Questo revival teosofico-psicologico, con pretese pseudoscientifiche, è assurdo. Abbiamo visto quasi una apoteosi del nazismo, Werke Ohne Author, direi di aprire gli occhi. Abbiate il coraggio, voi che siete spettatori, il coraggio di vedere, seguite il consiglio del film, e date il nome alle cose come sono. L’apologia di nazismo è apologia di nazismo. Heidegger era un nazista. Ecco, smettete di domandarmi se esisto io. Piuttosto, fatevi qualche domanda su come esistete voi. Per esempio, ha visto lei il film Monrovia, di Frederick Wiseman?» 
Sì, sì, un po’ noioso, per la verità. Ma cosa c’entra? 
«Ma che noioso, è la vita. Pensi a Monrovia, Indiana. Pensi alla quantità di piccole cose, alla miriade di gesti che ogni giorno si cumulano e fanno un paesaggio. Ecco, pensi a quanto ripetitivi, ciclici, rituali sono quei gesti. A quanto migliore il mondo sarebbe se invece di stare là, a chiedervi chi sono io, steste un po’ a casa, a fare quello che vi va di fare, a smettere di ripetere meccanicamente le vostre vite, a dare un po’ di senso alle cose semplici. Immagina che paesaggio avremmo?» 
A questo punto ha iniziato a bere forte, e abbiamo dovuto troncare l’intervista, il conto rischiava di diventare troppo salato, per noi che ci eravamo limitati alla gazzosa. 
Questo è anche il senso del film russo fuori concorso, The Trial, una falsa propaganda, un falso film d’archivio, che mostra un vero processo, costruito con prove false, ai danni di un gruppo di ingegneri per assicurarsi la loro incondizionata fedeltà al piano quinquennale del 1930, che ha garantito la sopravvivenza dell’Unione Sovietica durante la crisi economica più feroce della storia. Una velata apologia del KGB, o il suo contrario? 
Ai posteri, sperando che imparino a vedere, l’ardua sentenza. (Irene Guida
*Che dite, è veramente successo?

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