15 settembre 2018

TEATRO

 
38 anni di attività per il Zürcher Theater Spektakel, all’insegna di un’attenzione costante alla scena internazionale
di Carmen Lorenzetti

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La location è meravigliosa: un’isola verde sul bordo del lago, il Landiwiese. Al debutto del Festival, nel 1980, c’erano tre tende da circo e il teatro della Rote Fabrik (una fabbrica abbandonata), presentavano 17 compagnie da Europa e USA e già vendevano 12.500 biglietti. Un successo. 
Il curatore artistico per 10 anni è stato Jürg Woodtli, attento alla scena indipendente internazionale. Negli anni 80 sono passate compagnie impegnate come il Market Theater del Sud Africa, La Fura dels Baus, Peter Brook e Forced Entertainment (presente anche quest’anno). Il decennio successivo è caratterizzato da un’ulteriore apertura verso nuove dimensioni artistiche con la direzione di Markus Luchsinger: le performance di Acco Theatre Centre di Israele (1996) e del coreografo giapponese Saburo Teshigawara (1996) elettrizzano gli spettatori. Il Festival è tra i primi a presentare la Socìetas Raffaello Sanzio (1992) e il rivoluzionario coreografo Alain Platel (1996). Sono precorritori di nuove tendenze ospitando già nel 1991 la compagnia egiziana Al Warcha. L’inizio del nuovo millennio si apre con la direzione di Maria Magdalena Schwaegermann e il focus (a dieci anni dalla caduta del muro) sulle produzioni dell’est Europa e dei Balcani. Continua l’attenzione per la ricerca e la trasversalità dei generi, ospita anche artisti visivi come Marina Abramović o Richard Forman oppure perle dalla Cina come il Living Dance Studio di Wu Wenguang. Il direttore artistico Sandro Lunin (2008-2017) si rivolge particolarmente a giovani artisti dall’Africa, Asia, America Latina, che riflettono sulle loro condizioni di vita e di lavoro con progetti stilisticamente innovativi. Ne sono esempio Boyzie Cekwana (Sud Africa), Faustin Linyekula (Repubblica Democratica del Congo), Lemi Ponifasio (Samoa), Pichet Klunchun (Tailandia) o Bruno Beltrão (Brasile), presente anche quest’anno con la sua break dance trasfigurata Inoah oppure l’impegnata Lola Arias (Argentina) che quest’anno ha presentato il “documentario-teatrale” molto apprezzato Campo minado/Minefield, 6 veterani della guerra della guerra delle Falklands/Malvine (1982) che raccontano con l’ausilio di un film-documentario la loro esperienza. 
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Foto credit: ©Zürcher Theater Spektakel / Christian Altorfer Questo è il duo marocchino: Youness Atbane / Youness Aboulakoul

Quest’anno c’è stato l’esordio del nuovo direttore artistico, il bavarese Matthias von Hartz (1970), già direttore di altri festival in Germania e da ultimo del Festival di Epidauro ad Atene. Il focus è rivolto alle realtà di tutto il mondo, con un’attenzione particolare allo scottante problema della migrazione, dell’ineguaglianza sociale, ai temi post-coloniali, alle conseguenze catastrofiche dettate dalle rivoluzionarie innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni, sempre viste attraverso pratiche che confondono e meticciano i confini tra le arti. Tuttavia, al Festival non disdegnano produzioni popolari che coinvolgono il pubblico come il teatro di strada, manifestazioni circensi, teatro per bambini che si è guadagnato la postazione centrale. 
Il Landiwiese è preso d’assalto da una folla che lo vive compiutamente dal mattino alla sera, sfruttando il lago di giorno e tutti i ristoranti e i bar multietnici di notte. Il pubblico viene accolto da una libreria, da aiuti per i disabili e da un’attenzione particolare persino verso le persone disoccupate. Questa politica di inclusione sociale e culturale è uno degli aspetti vincenti del Festival, molto amato dai zurighesi. Nel 2016 hanno anche introdotto il premio del pubblico. E, a proposito di premi, quello per il finanziamento dell’opera (30.000 Franchi Svizzeri), il ZKB Patronage Prize, nato nel 1996, quest’anno è andato al duo belga Silke Huysmans & Hannes Dereere che con la performance – “documentario teatrale” Mining Stories, raccontano il disastro della miniera di Minas Gerais (2015), che scoppiando ha inondato con un fiume di fango vari villaggi intorno al Rio Doce. 
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Foto credit: ©Zürcher Theater Spektakel / Christian Altorfer Ogutu Muraya
È un racconto a più voci di vittime, politici, scienziati, il cui flusso di parole si proietta in innumerevoli pannelli di legno creando un’incalzante coreografia verbale e visiva. Lo spettacolo che mi ha più colpito, e che ha anche vinto lo ZKB   Acknowledgment Prize (5000 Franchi Svizzeri elargiti a partire dal 2002) è stato uno short piece: la performance The Architects del duo di artisti marocchini Youness Atbane & Youness Aboulakoul. L’irresistibile pezzo si serviva delle suppellettili che l’architetto licenziato dal suo ufficio si porta via nella sua squallida scatola di cartone. Il duo crea una coreografia che mette in relazione corpi, oggetti e spazio, sempre sul filo di un precario, impossibile equilibrio, legando a sua volta questi rapporti visivi al linguaggio che ridicolizza in modo sarcastico e comico il sistema dell’arte, ovviamente mescolando in tutto ciò sapori d’Africa con la meccanica europea. Divertente, incalzante nel ritmo e impietosa nella sua analisi della società decerebrata e alienata odierna è stata la performance di Néstor García Díaz. L’artista ha orchestrato in modo impeccabile il ping-pong tra il sè e la macchina, rovesciando continuamente i termini di esterno e interno con l’ausilio di oggetti di scena e doppia proiezione video e sonora. Altri short-pieces, cioè performance d’avanguardia di giovani, la parte più interessante del Festival: il duo coreografico greco Arisandmartha che mette in scena un pas de deux ironico, venato di lieve romanticismo. La toccante storia dell’esilio familiare dell’indiano Abhishek Thapar. La drammatica ed empatica coreografia sul tema degli immigrati del camerunense Dora Snake (più interessante il tema che la resa formale). La delicata coreografia delle iraniane Mitra Ziaee & Hiva Sedaghat intitolata Through the skin
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Foto credit: ©Zürcher Theater Spektakel / Christian Altorfer Walid Raad
Tra gli spettacoli dei big, non ha deluso la frenetica e inarrestabile coreografia di Boris Charmatz con il suo nutrito sciame di danzatori. La lecture-performance del keniano Ogutu Muraya con l’opera Because I always feel like running recupera lo stereotipo dell’atleta nero in chiave postcoloniale, partendo da Roma (e il colonialismo fascista) con la prima vittoria olimpica (1960) di un atleta africano (etiope), Abede Bikila, che corre a piedi scalzi. Il racconto è accompagnato da immagini video dove una serie di eroici atleti africani drammatizza l’accorato racconto dell’artista. Un appuntamento imperdibile è stato Les Louvres and/or Kicking the Dead, installazione performativa di Walid Raad. L’artista libanese/newyorkese ha giocato brillantemente e come sempre sull’intreccio indistinguibile tra realtà e finzione, usando diversi tipi di linguaggi e media: artistici, storici, politici, economici, novellistici, magici, epici, con scivolamenti temporali continui. I Louvres di Parigi e Abu Dhabi, i morti da ricacciare indietro: le immagini! I miei quindici giorni si sono conclusi in bellezza con l’iraniano Sorour Darabi, già premiato a Zurigo nel 2016. Capace di giocare con delicatezza infinita con gli stereotipi di genere, l’erotismo, le antichissime leggende persiane e l’autobiografico. 
Carmen Lorenzetti
 

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