24 settembre 2018

L’intervista/ Lubaina Himid

 
PER NON ESSERE INVISIBILI
La storia dell'umanità e della schiavitù, secondo la prima artista di colore vincitrice del Turner Prize

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Lubaina Himid, vincitrice del Turner Prize 2017, quest’anno è arrivata per la prima volta in Francia con una personale dal titolo “Gifts to Kings”, a cura di Sandra Patron, al Musée régional d’art contemporain di Sérignan, sulla scia di tre mostre tutte british presentate lo scorso anno allo Spike Island a Bristol, al Modern Art a Oxford e al Nottingham Contemporary. Artista, teorica dell’arte, curatrice e professoressa d’Arte Contemporanea presso la Central Lancashire University (UCLan), protagonista anche dell’ultima Biennale di Berlino, Lubaina Himid è prima di tutto una persona con valori ben definiti che crede nel cambiamento sociale e nel dialogo tra comunità diverse. Classe 1954, nata in Tanzania, da padre comoriano e madre inglese, arriva a Londra da bambina, dove studia scenografia al Wimbledon College of Art, prima di ottenere un master in Storia Culturale presso il Royal College of Art con una tesi intitolata “Young Black Artists in Britain Today”. Siamo nell’Inghilterra degli anni ’80, nel pieno delle leggi anti-immigranti di Margaret Thatcher, quando Lubaina Himid, attivista nel Black Art Mouvement, cura e partecipa a tre importanti collettive londinesi tra il 1983 e il 1985. Si va dall’Africa Centre che accoglie “Five Black Women”, al Battersea Arts Centre con “Black Woman Time Now” per chiudere con “The Thin Black Line” presso l’Institute of Contemporary Art, e tra le artiste vi erano Sonia Boyce, Veronica Ryan, Claudette Johnson, Sutapa Biswas, Mumtaz Karimjee, Maud Sulter, Chila Burman, Houria Niati e Ingrid Pollard. Si tratta di una generazione radicale di giovani artiste nere e asiatiche che si battono per la loro visibilità nell’arte attraverso creazioni che toccano temi socio-politico-culturali. Il loro impatto è stato talmente rilevante che nel 2011 la Tate Britain ospita la mostra “Thin black line(s)”, un omaggio al contributo di queste artiste all’arte britannica. Lubaina Himid oggi è impegnata nella promozione della scena artistica emergente, e al contempo lavora sulla diaspora africana e intorno alla raffigurazione stereotipata della gente di colore nell’arte occidentale. Freedom and Change (1984), per esempio, è una tela in cui l’artista si appropria e trasforma le figure femminili di Due donne che corrono sulla spiaggia del 1922 di Picasso, in due donne di colore che sembrano fuggire, sovvertendo così con sottile umorismo i canoni della storia dell’arte. Il titolo dell’ultima mostra, “Gifts to Kings”, invece gira intorno alla parola dono, riferendosi da una parte ai contingenti di schiavi africani offerti in regalo, dall’altra allo scambio pacifico con e tra gli spettatori sui temi dell’esposizione. L’artista lavora con il collage, la pittura, la porcellana, per trattare soggetti quali la schiavitù, come nel 2007 con Swallow Hard: The Lancaster dinner service, in cui presenta cento piatti da tavola, zuppiere e brocche da lei rivisitati, in risposta alla tratta degli schiavi avvenuta in passato a Lancaster. Abile nella mise en espace e nella narrazione, usa musica e voci fuori campo, colori e tessuti, redige testi e approfondisce contenuti con documenti storici e non solo. Insomma usa tutto pur di ricostruire le vicende nascoste di centinaia di persone, solo apparentemente assenti dalla grande storia; l’artista ci parla della presenza-assenza dell’altro. Come nell’installazione sonora Naming the Money del 2004, qui presentata solo in parte, in cui un centinaio di personaggi, degli schiavi-servitori, si raccontano. Infine, c’è il mare che ritorna nella sua opera come un leitmotiv, ora in un acrilico o rappresentato attraverso texture regolari. Il percorso copre un periodo che va dal 1984 al 2017, testimoniando una grande coerenza tematica e varietà nella pratica artistica. 
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Lubaina Himid, Gifts to Kings, a Sérignan
Quale storia racconti hai voluto raccontare in Francia?
«Intanto ho voluto presentare il mio lavoro al pubblico francese che non lo conosce. In un secondo tempo vorrei riempire un vuoto, instaurare un dialogo tra le comunità. Le mie opere sono qui per stimolare questa conversazione».
La tua ricerca verte sulla presenza-assenza della rappresentazione dei neri nella storia dell’Arte Occidentale. Qual è la tua posizione nel contesto accademico in cui insegni?
«Certo far parte di un corpo accademico delle volte è dura, ma è importante stare dentro per cambiare e capire le cose. A me piace collaborare, per esempio con Françoise Vergès, storica e femminista francese. Collaboro con professionisti diversi per riempire questa assenza appunto, e per posizionarsi di fronte alle opere in maniera nuova. Per esempio, per realizzare Le Rodeur  ho collaborato con esperti in storia economica».
Le Rodeur è una grande tela del 2017 che raffigura cinque persone riunite nel centro della scena, mentre sullo sfondo c’è una finestra che dà sul mare. Ce ne parli?
«Rodeur è il nome di una barca che nel 1819 ha trasportato 162 schiavi dai Caraibi, lungo il tragitto questi sono diventati ciechi per mancanza d’igiene. Il capitano getta in mare 36 schiavi sperando di ottenere un risarcimento. L’opera parla di un dramma; qui c’è una donna che porge all’uomo un pezzo di carta, simbolo del mare, ma lui non la vede. Ho voluto illustrare questo evento traumatico, per dire che ogni distruzione riverbera nel presente. Qui convergono passato e futuro ma è oggi che si attua il cambiamento. Ogni opera in questa mostra ci fa capire come in noi ci sia l’energia necessaria per realizzare questa trasformazione».
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Lubaina Himid, Gifts to Kings, a Sérignan
Quanto è stato difficile percorrere la tua strada?
«Avrei voluto parlare d’amore ma parlo dei problemi, della vita. È stato difficile ma niente è impossibile, ho sempre avuto buoni collaboratori, come per Naming the Money. Questa scena è composta da cento figure ritagliate in legno dipinte a grandezza naturale di schiavi-servitori neri. Ognuna racconta la sua storia personale, che è trascritta sul retro della sagoma, oltre che sonora. “My name is Mrile. They call me Henry. I used to play to my mother. Now I am alone. But I have her song.” È la storia dello schiavo-servitore, ma anche del migrante, del rifugiato, del richiedente asilo».
La postura e i costumi di alcuni personaggi di Naming the Money  fanno pensare alla commedia dell’arte. È così?
«Sì! Ho studiato scenografia, e mi sono interessata al teatro occidentale, ed è studiando le fonti che ho scoperto la commedia dell’arte. È un teatro aperto e spontaneo che mi ha dato subito un gran senso di libertà che non ho trovato in quello anglosassone».
Oggi godi del giusto riconoscimento internazionale, dopo trent’anni di creazione e militanza nel campo dell’arte. Sei la prima donna di colore ad aver vinto il Turner Prize, cosa provi?
«In un certo senso è un dolce-amaro, perché ci sono state altre artiste nere selezionate per questo premio prima di me, ma che non lo hanno vinto. Sono contenta, ma perché a me? C’è bisogno che il tempo trascorra per capire il suo impatto nella storia».
Livia De Leoni

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