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Se n’è andato uno dei maestri del silenzio. Questi sono i pittori che hanno dipinto con estremo rigore la muta poesia delle cose e l’insondabile fermezza degli spazi. Piero Guccione (1935-2018) era uno di questi, come con Giorgio Morandi, Antonio Calderara e Domenico Gnoli, davanti alle sue opere non sapevi se stavi guardando una distesa d’acqua o la stesura di sapienti gradazioni di colore su una superficie e basta. Sospese dal dubbio magrittiano, le marine di Guccione sono forse qualcos’altro, a volte ricordano la sublimità romantica, spesso infondono lo sgomento di non poter vedere oltre la cortina di nebbia cercando, nel lucore del velo dipinto, un orizzonte di riferimento. Invece, niente di tutto ciò. Tutto, infatti, si svolge in basso, nelle due o tre fasce cromatiche sovrapposte, sino all’ultima che chiamiamo battigia. Per chi sente l’infrangersi del mare davanti ai suoi quadri, i pigli ritmi dell’onda, l’umido della sabbia, posso dire che è solo frutto d’immaginazione, il cedimento ingenuo a un’illusione. A chi interroga la linea tra cielo e mare e tra mare e terra ricordo che ha centrato in pieno il senso della pittura, riabilitando la mitica sfida tra Apelle e Protogene sulla linea più sottile da tracciare. La metafora dell’interrogazione continua della superficie diventa a sua volta interrogatorio dell’occhio. Questi lidi disabitati non sono mai deserti, sono appunto come le bottiglie di Morandi, i campanili di Calderara le poltrone vuote di Gnoli, ossia ciò di cui la pittura si nutre di là dalla rappresentazione, oltre lo scontato mimetismo e la retorica evocativa. È una realtà a sé, non il suo legale rappresentante al tribunale delle sensazioni, tanto meno è un ristoro “contro il logorio della vita moderna”. (Marcello Carriero)