27 novembre 2018

TEATRO

 
Peter Brook, “The prisoner”. Lo spazio stretto di una prigione a cielo aperto
di Valentina Cirilli

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I’m here to repair, sono le poche parole di un giovane seduto immobile, per un tempo indefinito, di fronte a un’enorme prigione, in risposta alla domanda di un passante che gli chiede che cosa abbia fatto di così grave da meritarsi una pena tanto aspra. Quel giovane si chiama Mavuso e il passante può dirsi l’alter ego del maestro dell’arte teatrale di tutti i tempi, Peter Brook, che fa del racconto di una delle vicende accadute durante il suo viaggio a Kandahar la parabola del complesso rapporto tra colpa, punizione e redenzione umana: perno d’indagine di un sistema morale che accompagna il pensiero filosofico sin dai tempi biblici. Ma se è vero che, come spesso capita di pensare, molto sia già stato detto e già stato scritto, ciò che non smetterà mai di affascinare sono i modi infiniti con i quali l’arte e i suoi artigiani continuano a scolpire le verità più complesse servendosi, talvolta, dei mezzi più semplici. In questo si sa, Peter Brook e la sua fedele collaboratrice Marie-Hélène Estienne sono un modello indiscusso e The Prisoner l’ultimo lavoro portato in scena al Teatro Vittoria in occasione di Romaeuropa, può dirsi un racconto appassionato e affettuoso di una fiaba senza tempo sopra una materia tanto difficile.
Mavuso è colpevole di un crimine “indicibile”; spinto fin da tenera età dalle pulsioni sessuali nei confronti della sorella Nadia, viene allontanato appositamente dalla propria casa da quel padre che sarebbe poi divenuto l’autore del rapporto incestuoso con sua figlia, la stessa Nadia. Al suo ritorno, Mavuso sorprende i due parenti durante uno scambio amoroso, da qui l’impeto di una gelosia incontrollabile lo spinge ad uccidere il proprio padre, avviando sé stesso al lungo percorso di espiazione deciso dallo zio Ezechiele. Sulla superficie di un paesaggio desolato ma non ben definito, Mavuso dovrà riparare al crimine commesso fissando davanti a sé una grande prigione e tutto ciò che al suo interno avviene. Tutto ciò che il regista non trasporta materialmente sulla scena di David Violi – unicamente disseminata da alcuni arbusti e pochi sassi – ma che, per effetto del potere evocativo della parola, disegna perfettamente nella mente di chi lo guarda.
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Peter Brook, The Prisoner
Ancora una volta il minimalismo espressivo tipico del maestro si fa attivatore della facoltà immaginativa dello spettatore il quale, nell’atto di riempire i buchi di quel suo ricercato “spazio vuoto”, porta a pieno compimento l’autentica essenza di un teatro partecipato; una partecipazione che consiste “Nel diventare complici dell’azione e nell’accettare che una bottiglia diventi la torre di Pisa, o un razzo in viaggio verso la luna” come scrive in una delle pagine del libro La Porta Aperta. Il lento passare dei giorni, scandito dalla naïveté di un sistema di alternanza di luci e ombre ben disegnato da Philippe Vialatte, porta Mavuso a raffrontarsi con i demoni del suo passato, con il dolore per l’atto commesso e la rabbia nei confronti della violenza dell’abbandono inflittagli dal padre. A nulla servono i tentativi della sorella Nadia che, scopertasi in cinta di suo fratello, cerca in vano di dissuaderlo per condurlo a sé. A poco a poco la tentazione perenne di fuggire da quel luogo desolato, i cui unici contatti sono l’arrivo di un topo che da compagno diverrà suo pasto e le visite del boia del villaggio, scompare per lasciare spazio al calare di uno sguardo fisso e ossessivo sulla propria miserabile condizione di colpevolezza. Qual è il senso che accompagna la punizione di Mavuso e in che modo può assicurargli il cammino verso la vera redenzione? “La prigione avrebbe continuato a nutrire la tua natura furibonda” dice Ezechiele, mentre “il peso del crimine commesso dovrai portarlo dentro di te, in ogni momento della tua vita, quando mangi, quando dormi e in tutte le cose che farai”. Niente cella, niente sbarre dunque: solo la tentazione perenne di fuggire.
In The Prisoner c’è tutta l’urgenza di voler riflettere sul mancato funzionamento dei meccanismi repressivi messi in atto da quella che già Michel Foucault, nel suo corso al Collège de France, definiva la “società punitiva”, quella prigione a cielo aperto dove “Mediante una punizione che avviene sempre più attraverso la pratica dell’imprigionamento si disciplinano gli individui e li si normalizza in determinati schemi”, senza che sia data loro la vera possibilità di salvezza, la possibilità di conquista della propria responsabilità. Proprio nel discorso “normalizzatore” che fa del criminale un nemico della società in quanto persona non-produttiva, si annida, secondo Foucault, il pieno esercizio del potere e il conseguente sistema di giustizia. L’imprigionamento di Mavuso non è nello spazio fisico di una cella ma in un’esperienza catartica che dà l’avvio ad una ricerca ostinata della propria identità e coscienza esistenziali fino alla piena consapevolezza del proprio operato. Nessuno ci dice se sarà sufficiente a garantirgli la piena redenzione ma qualcosa nel suo sguardo è cambiato: la luce del nuovo giorno lo illumina già.
 
Valentina Cirilli
Testo, Regia: Peter Brook, Marie-Hélène Estienne 
Luci: Philippe Vialatte 
Scene: David Violi 
Con: Hiran Abeysekera, Hervé Gof- fings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan, Donald Sumpter Assistente ai costumi: Alice François 
Con l’aiuto di: Tarell Alvin McCraney, Alexander Zeldin Foto Simon Annand 

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