04 dicembre 2018

TEATRO

 
Platonov o la felicità altrove
di Giuseppe Distefano

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Va affermandosi con un suo segno preciso, pulsante, fortemente contemporaneo, lavorando con passione, con dedizione profonda al teatro, al suo fare artigianale, autentico, scarno, essenziale, testimoniato dal risultato di una pratica scenica che predilige l’attore ponendolo al centro dell’interesse. Con gli attori della compagnia Il Mulino di Amleto, Marco Lorenzi è da segnalare tra i registi che, nella rilettura dei classici, e non solo, è animato oltre che dal bisogno, senza retorica, di renderli a noi vicini nelle tematiche risvelandoci la loro contemporaneità senza forzarne l’attualizzazione, anche da quella necessità di condividere per parlare al nostro presente restituendo alla parola “popolare” la sua accezione più nobile. I suoi ultimi lavori, soprattutto, lo confermano: da Gli innamorati di Goldoni al Misantropo di Molière, da L’albergo del libero scambio di Feydeau al Romeo e Giulietta di Shakespeare, passando per Genet e Brecht, fino al recente Ruy Blas di Victor Hugo, ed ora Platonov di Cechov (produzione Elsinor, Tpe, Festival delle Colline Torinesi, visto al teatro Fontana di Milano) che reca il sottotitolo, quale chiave di lettura, Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove. Ascoltate la recitazione degli attori dai toni quotidiani come se fossimo noi a parlare così, normalmente, tra esseri umani, senza forzare con intonazioni attoriali, stabilendo così una connessione comunitaria tra palco e platea; guardate il loro muoversi sciolto, vero, privo di artificialità che scatena emozioni; e osservate i materiali scenici, essenziali e ingegnosi, funzionali e carichi di significato.
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Platonov, Il Mulino di Amleto, PH Manuela Giusto
C’è una grande vetrata mobile che spostata a vista, in avanti o indietro, o ruotata come una giostra, crea il dentro e il fuori della casa di Anna Petrovna, focalizzando i dialoghi a due da quelli corali; c’è un lungo tavolo ingombro di bicchieri e di bottiglie di vodka che troviamo anche a terra in un angolo del palcoscenico e che verranno svuotate dentro un secchio; ci sono due microfoni per confessioni personali al pubblico e sintesi delle vicende; e l’immancabile fila di sedie disposte in un lato e in fondo alla scena per soste, sguardi e riflessioni. Lasciatevi poi andare al ritmo, alla frenesia, alla baldoria che anima la scena con i protagonisti sempre a bere vodka – che sarà offerta anche allo spettatore entrando in sala, quasi a renderci complici della festa – in una sovraeccitazione ebbra, disperata, per affogare sofferenze e sensi di colpa, inquietudini e insoddisfazioni, cercando una felicità che sfugge. Ritroverete la tragicommedia che in germe contiene, scompostamente, tutti i futuri temi di Cechov, un Platonov che, nell’intelligente riscrittura operata dallo stesso regista e Lorenzo De Iacovo per trarne un loro personale itinerario, è stata scarnificata nei mille rivoli dell’azione, tagliata anche nell’ultimo atto a favore di una velocissima sintesi raccontata al microfono. Ritroverete ugualmente, e forse ancor più marcatamente, tutta la nervatura della vicenda che ha per protagonista un maestro di paese in odore di fallimento, velleitario e nevrotico, che incarna in qualche modo lo spirito di un secolo, perso per tutte le donne che lo circondano e ne divorano la passività di Don Giovanni involontario conteso com’è tra una matura amante possessiva, la generalessa, e la consorte illusa e romantica del figlio di costei, mentre la moglie aspetta. Attorno a lui gira un’umanità al tramonto che compone giochi di parole e di illusioni sotto l’affocato cielo estivo di una tenuta dove si coltivano ormai solamente debiti e ipoteche. 
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Platonov, Il Mulino di Amleto, PH Manuela Giusto
Tra amori e disamori che nascondono un disagio più diffuso e generale, intanto si vive di risate e struggimenti, di scoppi eccessivi che si sciolgono nell’aria come un temporale (bellissimo il finale con tutti sotto una pioggia purificatrice che scende da uno spruzzatore d’insetticida manovrato da uno dei personaggi), ravvisandovi anche tutti i rimandi dei drammi successivi che da questi personaggi discendono. Perché, sappiamo, quest’opera giovanile e incompiuta, nota come Commedia senza titolo, prefigurava le opere più rigogliose del grande Cechov, Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi in particolare. Ma anche Il gabbiano. E qui palesemente ne troviamo traccia nella folgorante e divertente scena in cui il volatile stramazza improvvisamente dall’alto centrato da un colpo di pistola accidentale, e tutti rimangono attoniti per un lungo momento a guardarsi. Il marchio di Cechov è già dato all’inizio da un suo ritratto dipinto su una maglietta che indossa un dinoccolato dj che prenderà posto alla consolle avviando le musiche e i suoni che determineranno il climax tra il ridere sfrenato e le pause di silenzio, gli improvvisi scatti d’ira con conseguenze comiche e le diverse reazioni emotive e fisiche anche riprese – quasi un fuori scena che li rende sempre presenti e ne coglie i dettagli – da un telefonino e proiettate su un piccolo schermo. Nel secondo e terzo tempo l’intrigo sentimentale ha il sopravvento, dando luogo a episodi quasi da pochade o da vaudeville finché, sfiorata la tragedia, tutto si riaggiusta in un ordine che dobbiamo ritenere precario. Mutando il finale accennato da Cechov (Platonov ucciso per gelosia), Lorenzi ferma tutto e tutti e fa dire: «Stasera abbiamo deciso che bisogna fare qualcosa di più faticoso che morire. Questa sera bisogna continuare a vivere». E ancora: «La vita! Perché non viviamo come avremmo potuto?». E subito parte il lento ballo sotto la pioggia. Amore, gioia, dolore e vita, racconta Cechov, e questo ci racconta il teatro di Lorenzi e dei suoi encomiabili attori tutti, a partire da Michele Sinisi, il protagonista, e, in un afflato corale, coinvolgente, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Stefano Braschi, Roberta Calia, Angelo Maria Tronca, Rebecca Rossetti, Yuri D’Agostino, Giorgio Tedesco.   
Giuseppe Distefano

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