05 dicembre 2018

Arte, società e geografia

 
Ripensare i “pubblici” della cultura in senso ampio, e avvicinarsi alle sfaccettature di un continente complesso, urbano ed in trasformazione: l’Africa. Vista dagli Emirati

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«Alcuni anni fa, hai avuto l’occasione di ripetere varie volte che non ci fossero ragioni per le quali, certi tipi di persone (Italiani o Negri), non potessero competere in arte, tranne che per la loro comune mancanza di certi requisiti», Frank Bowling, 1 Maggio 1974
«Caro Frank, sei un nudnik (rompicoglioni), come diciamo in Yddish. Ho spesso espresso giudizi razzializzati riferendomi agli Ebrei, agli Anglo-sassoni, e soprattutto parlando di artisti italiani, spagnoli e greci». Clement Greenberg, 22 Novembre 1975. 
Qualche anno dopo, in una lettera datata 14 Novembre 1976, Greenberg scrive a Bowling: «La scena dell’arte newyorchese non è confusa come prima. E quindi che fare? Continua a dipingere “fallico” (nessuno lo ha notato). E mantieni il distacco tra chiaro e scuro più smorzato, non scurendo ma schiarendo».
Si tratta di alcuni dei tanti scambi tra l’artista britannico Frank Bowling (1934), nato nella Guyana Britannica e radicato a Londra, con il suo amico di lunga data Clement Greenberg, il critico e saggista dell’Espressionismo Astratto e della pittura astratta della seconda metà del XX Secolo. Le lettere fanno parte dell’epistolario conservato nel Sarah Greenberg Morse and Frank Bowling Archive che Okwui Enwezor ha selezionato per la mostra “Frank Bowling: Mappa Mundi”, aperta di recente alla Sharjah Art Foundation (che l’ha anche prodotta) dopo il tour alla Haus der Kunst di Monaco e l’Irish Museum of Modern Art (IMMA) di Dublino.
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Mulatu e Youssou: due momenti dei concerti di Mulatu Astatke e di Youssou N’Dour
La retrospettiva si concentra sulla carriera di Bowling, uno dei padri dell’astrattismo del XX Secolo ed artista inesplorato e quasi sconosciuto fino agli anni Novanta, quando la scrittrice e curatrice Gilane Tawadros, ex direttrice dell’InIva di Londra e pioniera nella ricerca e valorizzazione della storia degli artisti africani ed afrodiscendenti del modernismo, ha lavorato per ricostruirne la traiettoria, consegnandolo di fatto alla storia.
“Frank Bowling: Mappa Mundi”, accompagnata da un bellissimo catalogo ragionato dell’opera di Bowling (contenente anche molti documenti inediti), ci permette di esplorare un pezzo di storia del Modernismo ancora mai narrato, mostrandoci – come scrive Enwezor nel bel testo introduttivo – che l’Astrattismo non è stato solo un metalinguaggio formalista, ma ha anche operato come spazio di esplorazione critica della Storia e della Geografia. Nel caso di Bowling, con la serie di dipinti con le mappe dell’America Latina, permettendo di visualizzare i legami e la distanza tra la Guyana Britannica (nome attribuito a una porzione di terra posta tra Brasile e Venezuela occupata dall’Impero Britannico) e l’Occidente: il Black Atlantic, i movimenti di corpi sull’oceano forzati dal colonialismo ed i confini forzatamente tracciati dagli imperi coloniali sulle figurazioni cartesiane del pianeta: le mappe geografiche.
L’epistolario di Bowling, ed i suoi scambi con Greenberg su mondo dell’arte, sulla pittura astratta, sul milieu culturale di New York e Londra, ci immerge anche nella diatriba tra astrattismo e realismo, esplicitata nel mondo afrodiscendente anglosassone e negli Stati Uniti in particolare con il dibattito tra pittori come Bowling e gli artisti della Harlem Renaissance, che sostenevano il realismo contro l’astrattismo, in funzione di una necessità di autonarrazione ed autorappresentazione in una società razzista, classista, violenta con la comunità afroamericana. Ma anche, o forse soprattutto, le parole di Greenberg e Bowling ci catapultano nella realtà del razzismo negli Stati Uniti, quello che James Baldwin ci mostra nel suo bellissimo Un Altro Mondo nel 1962, e quello di cui disquisisce Bowling chiedendosi (e chiedendo a Greenberg) dove far crescere i suoi figli meticci, se nel razzismo dei diritti civili negati degli Stati uniti o in quello violento ma mai dichiarato della Gran Bretagna (o dell’Europa in generale), dove sono nati e dove lui stesso si è formato.
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Frank Bowling, South America Squared, 1967, dittico, acrilico e spray su tela
La mostra ha accompagnato l’inaugurazione a Sharjah dell’Africa Institute, uno spazio per ricerca e valorizzazione delle culture africane moderne e contemporanee, con un occhio alle relazioni Arabo-Africane ed alla globalità in generale. In perfetto stile post-terzomondista, l’African Institute è lo sviluppo dell’Africa Hall, fondato a Sharjah nel 1978 con l’augurio che diventasse uno spazio di studi africani, e poi evoluto con l’apertura dello Sharjah Hall nell’Università di Khartoum nel 1987, come ideale prosecuzione di un’idea panafricanista e panaraba di relazioni tra sud del mondo. L’operazione si radica nella ricerca globale, e orientata alle relazioni Sud-Sud, già portata avanti dalla Sharjah Art Foundation e la Sharjah Biennale, che in meno di due decadi ha trasformato l’emirato in un hub internazionale dell’arte.
Hoor al Qasimi, direttrice della Sharjah Art Foundation ed infaticabile innovatrice che – seppur lavorando con i fondi pubblici di uno stato ricchissimo – si è adoperata per cercare un significato locale alla Sharjah Art Foundation ed alla cultura a Sharja in generale, evolvendo la città in uno spazio di produzione di senso e non solo di mercato dell’arte come la vicina Abu Dhabi. 
Prima dell’Africa Institute, Al Qasimi aveva avviato un percorso di esplorazione del continente africano insieme allo storico e professore della Cornell University Salah M. Hassan, con cui negli ultimi anni ha prodotto e curato diverse mostre centrate sul’Africa: quella di Ibrahim el Salahi andata alla Tate di Londra nel 2013, la mostra sui surrealisti egiziani (Cairo 2016) e sul modernismo in Sudan (Sharjah 2017).
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Mulatu e Youssou: due momenti dei concerti di Mulatu Astatke e di Youssou N’Dour
Il lancio di questa iniziativa africana, avvenuto con la mostra di Bowling, è stato accompagnato da una proposta culturale volutamente ibrida, che ha messo in sintonia cultura accademica e pop internazionale, forse per ripensare i pubblici della cultura in un senso più ampio e per avvicinarsi alle sfaccettature di un continente complesso, profondamente urbano, delocalizzato ed in trasformazione.  
La proiezione di An Opera of the World (2017), del regista e teorico Maliano-Statunitense Manthia Diawara ha aperto il public program. A questa è seguita una giornata di studi internazionale, profondamente accademica, 5-plus-1: Rethinking Abstraction, curata da Al Qasimi e Salah M. Hassan insieme ad Enwezor, ha visto partecipare professori e ricercatori che hanno dedicato la loro pratica alla storia dell’astrattismo africano ed afroadiscendente (la già citata Gilane Tawadros, la curatrice della Tate Zoe Whitley, Kellie Jones della Columbia University, Courtney J. Martin direttore e curatore della Dia Art Foundation, Gilane Tawadros e Krista Thompson della Northwestern University). Usando come pretesto il titolo di una pietra miliare, la mostra curata da Bowling nel 1969, “5 + 1”, il simposio ha cercato di riscrivere la storia del movimento astratto, attraverso la narrazione di storie ed esperienze (non narrate) di artisti africani ed afro-discendenti, pionieri dell’arte astratta nel Novecento e mai inclusi nei libri di storia. 
Insieme a questa giornata di studi, Al Qasimi ha voluto inaugurare le attività dell’African Institute con una serie di concerti di musicisti noti come Youssou N’Dour e Le Super Étoile de Dakar, Mulatu Astatke, e di figure di spicco ma in evoluzione come Omou Sangaré o Somi. Ospitati dall’Arica Hall, un teatro polifunzionale ricostruito sulle ceneri dell’edificio originario del 1978, la serie di concerti ha inaugurato una stagione di attività culturali votate ad esplorare il continente, nell’attesa che il nuovo edificio, commissionato all’archistar afrodiscendente-britannico Sir David Adjaye, sarà pronto nel 2021. 

Lucrezia Cippitelli

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