27 dicembre 2018

Il trionfo dell’Immagine universale globale

 
Attraverso l’ossessione della reificazione, tutto viene pensato come “cosa nuova”. E la fotografia “social” è l’ultima vittima di uno spostamento che non conduce da nessuna parte

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Se gli spazi dei non-luoghi ipotizzati da Marc Augé non producono né identità singolari né relazioni ma solo solitudine e similitudine , alla stessa stregua le centinaia di migliaia di fotografie e selfshots che invadono la rete in un determinato istante si pongono innanzi agli occhi dello spettatore come banali compartimenti stagni di solitudine e similitudine. Essi manifestano l’urgenza di ritrarsi in un determinato luogo o ritrarre quest’ultimo ma non spostano l’attenzione sul soggetto o sulla reale natura dell’immagine. 
L’anonimia di una serata in discoteca abbracciati ai nostri amici e le foto della nostra vacanza a Londra con il Big Ben in primo piano diventano brandelli di solitudine e similitudine che si accostano a quelli degli altri utenti della rete. Si potrebbe comunque obiettare che per il nostro utente-fotografo e la cerchia dei suoi amici quelle immagini siano comunque importanti ma ad un’attenta analisi ci si accorge che le cose non stanno propriamente così. 
Nelle fotografie pubblicate i volti, i luoghi e le forme si interfacciano e si legano assieme, proiettandosi immediatamente verso l’immagine successiva, formando così una realtà perennemente in transito che necessita una continua documentazione per “esserci”.  All’utente moderno non basta più una singola fotografia, ma un continuo fluire di scatti che devono essere pubblicati sui social network nel momento stesso in cui si partecipa ad un determinato evento. Amici e conoscenti possono così condividere e godere dell’immagine ma si tratta di un piacere caduco vista la costante sete di nuove fotografie. L’attimo, deve succedere all’attimo, il volto deve soccombere al nuovo volto, il luogo deve cedere il passo ad un altro luogo che fa solamente da sfondo.  
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Mario Cresci, dalla serie Ritratti Reali (1974)
Nell’era della fotografia analogica la nostra vita era allietata da sporadici attimi “speciali” da documentare con lo scatto di un’immagine, oggi con la fotografia digitale ogni attimo deve essere documentato. Di conseguenza la singola esistenza non ha più nulla di speciale poiché essa è costantemente sotto i nostri occhi e sotto quelli degli utenti della rete. Si configura quindi una forma di esistenza collettiva dove tutti producono più o meno le stesse immagini. In questa nuova forma di gioco di società, le fotografie vengono scattate solo per riempire la bacheca della pagina del proprio social network. Mentre si cucina una pizza si scatta una foto con un dispositivo che possiedono milioni di persone e si manipola la foto con filtri software usati dalla stessa moltitudine, anche le angolazioni di scatto si somigliano all’interno della visione prodotta da quella che potremmo definire l’Immagine universale globale, una forma visiva che rappresenta un’estensione del social network. In seguito si posta l’immagine del piatto e si possono scorrere altre immagini di pizze cucinate da altri utenti sparsi per il globo. 
L’utente-fotografo si sente quindi rassicurato dalla retorica dell’immagine prodotta anche da altri utenti ma allo stesso tempo scopre che la sua immagine non ha più nulla di speciale. Tale scontento è però eclissato da una gioia passiva data dalla perdita d’identità e dall’ingresso nel grande gioco di ruolo dell’Immagine universale globale. L’immaginario collettivo contemporaneo, attraverso l’imperante insipienza rappresentata dalla reificazione, ha imparato a dissimulare il futuro all’interno del nuovo, per cui tutto viene immaginato come “cosa nuova”, un progresso commerciale che nello specifico manifesta solamente la condizione di un lento divenire perennemente identico a sé stesso. 
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Luigi Ghirri, Alpe di Susi, Bolzano 1979
Questo ragionamento vale anche per la fotografia, essa è divenuta una smania di produzione del nuovo per oggettivare una sorta di progresso. In realtà l’unico progresso riscontrabile è l’aumento del numero delle immagini, quindi possiamo parlare di un’accelerazione all’interno di uno spostamento che non conduce in alcun luogo, una sorta di condizione kafkiana vissuta all’interno di una distopia orwelliana. In completa solitudine, in realtà parte di una moltitudine, l’utente-fotografo prende un impegno formale con le architetture dell’Immagine universale globale. Di tanto in tanto i termini di questo impegno gli vengono ricordati, ad esempio egli deve per forza di cose acquistare un dispositivo per fotografare, comunicare i suoi dati al social network dove pubblicare le immagini, cedere i diritti delle sue immagini a quest’ultimo e postare immagini regolarmente per non distaccarsi troppo dagli altri utenti. Di conseguenza questo comporterà il dover seguire gli altri utenti e commentare le loro fotografie, tenersi informato sui nuovi apparati in commercio ed acquisire ed imparare ad utilizzare i programmi di fotoritocco. 
Come se tutto questo non bastasse l’utente-fotografo deve prepararsi a cambiare apparato quando questo non è più compatibile con le architetture dell’Immagine universale globale ed i softwares che le regolano. Tutte queste incombenze erano inesistenti nell’era della fotografia analogica visto che gli apparecchi fotografici potevano essere utilizzati per lunghissimo tempo e gli standard amatoriali comuni prevedevano altri impegni quali acquistare un rullino e pagare sviluppo e stampa ad un laboratorio esterno. Appare chiaro invece che la somma dei gravosi e continui impegni a cui è sottoposto l’utente-fotografo dell’era digitale, lasciano poco spazio alla creatività. Ecco quindi che l’accesso all’ Immagine universale globale nel rispetto delle leggi che la regolano, sancisce anche la perdita della denominazione di “fotografo”, poiché è chiaro che ogni utente produce delle immagini. La mera definizione di “utente”, conseguentemente alla perdita di controllo sulle proprie immagini che possono essere vendute dai gestori dell’Immagine universale globale senza che questi corrispondano un contributo in cambio, rappresenta quindi l’evidenza di una situazione di totale conformismo ed obbedienza. In realtà, data la quasi totale assenza di ricerca creativa all’interno dei social networks, le ipotetiche immagini che questi potrebbero rivendere a TV, web magazines, pubblicità e quanto altro, andrebbero comunque ad alimentare una pregressa condizione di miseria immaginifica della massa, delineando l’effettiva presenza di ciò che abbiamo definito come accelerazione in uno spostamento che non conduce da nessuna parte.
 
Micol Di Veroli

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