17 gennaio 2019

CURATORIAL PRACTICES

 
Le vittime del sistema dell’arte: intervista a Jörg Heiser
di Camilla Boemio

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Il secondo appuntamento con “Artiparlando” a cura di Andreas Hapkemeyer, a Museion, è dedicato al tema “curators and curating”con il curatore e docente Jörg Heiser. Heiser è il direttore dell’Institut für Kunst im Kontext presso l’Universität der Künste a Berlino ed è co-curatore della Busan Biennale, in Sud Corea.
Il suo intervento intitolato “Kuratoren: die neuen Sündenböcke?” ovvero “Curatori: le nuove vittime?” è stato stimolante e di grande attualità, non solo perché capisco cosa voglia dire ricoprire questa posizione conoscendone le dinamiche che portano a situazioni paradossali, ma meravigliano i tanti noti casi internazionali che hanno alimentato aspri dibattiti pubblici. Credo sia il momento di porsi delle riflessioni mirate sulle nuove vittime del sistema dell’arte. 
Basti pensare ai casi recenti che hanno coinvolto noti curatori mentre avevano ruoli centrali, e quanto siano stati co-resi responsabili o facili capri espiatori: da Beatrix Ruf, a Adam Szymczyk (il curatore di Documenta 14) a Laura Raicovich ex direttore esecutivo del Queens Museum di New York.
In generale sembrerebbe siano preferiti in alcuni musei, soprattutto in Italia, figure di indubbia pratica curatoriale pur di assecondare il dictat della politica ed andare a realizzare scadenti programmi; quasi a livellare all’esterno l’arte contemporanea per fare si che non emergano le eccellenze. Ma questo è solo uno dei punti di analisi che mantiene sfaccettature ed evoluzioni molto più ampie nelle quale il populismo dilagante è un deflagrante artefice. 
Durante la sua riflessione, sul ruolo dei curatori e curatrici d’arte contemporanea, Heiser ha utilizzato per introdurre la conferenza, la satira messa in atto dal magistrale film svedese The Square nel 2017, accompagnando ai diversi casi reali. 
La serie di conferenze è nata dalla collaborazione tra la Libera Università di Bolzano (Facoltà di Design e Arti) e Museion.
È inutile tergiversare; vado direttamente al tanto agognato punto della sua riflessione. Siamo in preda a un modus operandi che rende il curatore il capro espiatorio ideale di tutte le ignominie e carenze del sistema? 
«È un meccanismo comodo per i membri dei board di musei e altre istituzioni d’arte contemporanea, ma anche per i politici, individuare un “capro espiatorio” per risolvere problemi o conflitti e scaricare eventuali responsabilità. Questo non significa che i curatori non sbaglino mai. Occorre però differenziare i casi in cui abbiamo a che fare effettivamente con mancanze o errori da parte dei curatori – debolezza nel management, conflitti d’interesse, problemi nei rapporti con i collaboratori – e dove i problemi sono gonfiati artificialmente per ragioni politiche o semplicemente per liberarsi di un curatore/curatrice perché il suo programma non piace in quanto troppo politico, troppo femminista o troppo innovatore. Forse anche perché si vuole censurare o addirittura ridurre il settore cultura in generale. Pensiamo a quello che attualmente succede in paesi come la Polonia, la Turchia e il Brasile. La libertà dell’arte è un bene prezioso e la demonizzazione dei curatori è un brutto segnale».
Perché siamo arrivati a questa “panacea” che si ripete in modo inesorabile?
«I conflitti intorno al ruolo generico e al programma specifico dei curatori sono sempre esistiti. Nuove sono la violenza e la velocità con cui queste discussioni si scatenano. Qui giocano un ruolo le dinamiche dei social media, che con i loro algoritmi tendono alla polarizzazione e alla semplificazione. È così che facilmente si arriva a una condanna, a una specie di gogna in rete. Spesso i fatti non contano più, quello che invece conta è la sensazione della caduta di un personaggio prestigioso e (realmente o ipoteticamente) arrogante».
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Foto Museion

Quale è stato il primo caso in Europa che in qualche modo ha modificato la percezione e le responsabilità del ruolo?
«Se ci riferiamo all’ondata più recente è sicuramente il caso di Beatrix Ruf, accusata di avere mescolato interessi di tipo privato e quelli di una direttrice di un’istituzione pubblica. È possibile sostenere che la Ruf sia stata invitata a licenziarsi per le stesse ragioni per cui era stata chiamata: per la sua vasta rete nel settore privato dell’arte, cioè per i suoi rapporti con gallerie, collezionisti etc. Un parere giuridico del giugno 2018 la scagiona da queste accuse. Anche Harald Szeemann, cioè il precursore della figura attuale del curatore, era inviso a tanti. Quando dopo la sua leggendaria mostra When Attitudes become form il direttivo della Kunsthalle di Berna gli negò la realizzazione della mostra su Joseph Beuys, Szeemann si licenziò».
Una società in crisi, un capitalismo esasperato ed un mercato dell’arte isterico possono alimentare un meccanismo “barbarico” nel quale lavorare insieme nell’arte visiva non significa più consorsiarsi per un obiettivo importante comune, ma un modo per alimentare il conflitto scansando ed eliminando chi abbiamo accanto per pura selezione o/e distrazione o divertimento ancestrale? Come usavano i romani una “Mors tua vita mea” dai contorni estremamente fragili. 
«Sembra che in Brasile attualmente stia succedendo proprio questo. Il Presidente Bolsonaro ha ribadito varie volte la sua volontà di cancellare il Ministero della Cultura e portare il budget per la cultura a zero. E lui e i suoi sostenitori agitano contro insegnanti, professori/esse, artisti ed artiste. Si tratta di un’erosione della società civile che non si ferma neanche davanti alle sue istituzioni: le scuole, le università e le istituzioni dedite all’arte».
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L’attore Claes Bang nei panni di Christian, il curatore d’arte protagonista del film “The Square”, regia di Ruben Östlund.

Siamo una società conflittuale, ed il curatore assume un ruolo nel quale sembra sia il portavoce di questo malessere dilagante. Mi ricordo un’intervendo di UNDO, di qualche anno fa, nel quale Renato Barilli inveiva senza nessun tipo di formalismo estetico-critico contro i curatori internazionali, a suo dire simbolo di ogni pestilenziale germe. Anche in Germania ci sono stati casi analoghi? 
«Si. Il mio collega Stefan Heidenreich nel 2017 scrisse nel settimanale tedesco Die Zeit: “Fare il curatore è un’attività non democratica, autoritaria e corrotta”; i curatori sarebbero degli “autocrati”. Suppongo abbia detto questo nel momento di massimo sdegno nei confronti di Chris Dercon, odiato dal momento della sua nomina a capo della Volksbühne di Berlino, e nei confronti di Adam Szymczyk, capo dell’ultima Documenta».
Tutto questo stato di malessere può portare a un pressapochismo nel quale chi ne beneficia sono i “finti” curatori che vengono posizionati dalla politica nei posti chiave? 
«Sì, esiste il pericolo che figure politicamente ambigue ne approfittino. D’altronde in questo momento si potrebbe cogliere l’occasione di darsi delle regole di compliance e un Code of Ethics di cui approfitterebbero anche i curatori stessi. Nuove regole contribuirebbero a proteggere i singoli da forme di mobbing e di calunnia esercitate nei social. Come cittadini e come persone che amano l’arte siamo chiamati a impegnarci per regole corrette e trasparenti».
Camilla Boemio
Traduzione dal tedesco di Andreas Hapkemeyer, Museion

1 commento

  1. Bah , il buco di milioni nel bilancio a Documenta è addebitabile agli organizzatori della mostra e non ad un complotto . Il fatturato della curatrice dello Stedelik che collaborava con una fondazione privata è pure perfettamente documentato e se non illegale è molto imbarazzante in quanto tutt’altro che eticamente corretto. Che poi le mostre a tema femminista siano pericolose per il potere è una favola alla quale non crede nessuno. A questo signore non sorge il dubbio che certe mostre siano semplicemente brutte e che troppa gente dell’organizzare mostre ha voluto fare una professione con una burocratizzazione del sistema con i risultati che si vedono. A lamentarsi dovrebbero essere gli artisti davvero indipendenti e non i mediatori culturali di professione dei quali , almeno in parte, si potrebbe fare a meno.

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