07 gennaio 2019

Il cuore della terra. Sara Minighin ci racconta il suo progetto alla A+B di Brescia

 

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Abbiamo incontrato Sara Minighin alla Galleria A+B di Brescia, dove è stata presentata la sua installazione Oggi, tornando a casa, in barca ho dato un passaggio ad una libellula, nell’ambito del progetto FIRST STEP, con l’Accademia di Belle Arti di Verona e ART VERONA. 
Il tuo lavoro è partito da una figurazione astratta dove la tecnica svela la radice concettuale: quali erano le esigenze e le mete?
«Già dai primissimi lavori ho concentrato la mia ricerca sulla stratificazione e la materia, partendo però sempre dalle forme dell’osservazione quotidiana, attraverso il riciclo di materiali trovati oppure frutti del mio consumo. Alternavo assemblaggi scultorei a pitture astratte e collage. La stratificazione è presente nei lavori, fisicamente o idealmente, così come lo è nella vita, fatta di accumulo e deposito, un ciclo dove ciò che muore dà inizio a qualcos’altro, dove ogni elemento è unito all’altro sebbene esista o esistesse come singolo. Alla fine del 2017 mi sono immersa nella ricerca del pigmento. Non mi bastava più il riciclo e il riutilizzo parziale, che affiancavo all’uso di acrilici e colle, avevo bisogno di qualcosa di più completo. Il passaggio al metodo di auto-approvvigionamento è stato rapido e intenso. Cammino, trovo, raccolgo: creo polveri da pietre morbide, colgo semi o piante e creo una tempera all’uovo con i materiali che colleziono nel tempo. Dal progetto Solo scalzi, l’installazione delle tele a pavimento, il mio metodo pittorico ha virato nettamente: tutto questo diventa etica, filosofia del quotidiano. La natura è l’insegnante che prediligo: parto per le passeggiate senza certezza, guidata dalla sensazione, una tappa dopo l’altra rientro a casa con lo zaino pieno, a volte di materiali, a volte solo di esperienza». 
Com’è nata l’esperienza che ti ha portato sulle rive del Danubio? 
«Da tre anni volevo ritirarmi più a lungo del solito nel mio posto preferito: l’isola Vesszőzátonysziget, in mezzo al ramo piccolo del Danubio, a sud di Budapest, dove mia nonna si trasferisce ogni anno dalla fine all’inizio dell’inverno. Volevo stare con lei, per rivivere l’isola e imparare la tecnica della terra cruda, insieme al sapere della tradizione. Ho scoperto una casa di terra a Kiskunlacháza, il primo paesino nella sponda opposta all’isola. Lì, una famiglia ha fondato un’associazione che si occupa di quello che stavo cercando: tutelare quei patrimoni, valori e conoscenze che se non venissero tramandati si perderebbero per sempre. Avevo bisogno di andare lì, stavo cercando il mio passato, volevo conoscere ciò che mi potevano solo raccontare. Penso il legame con la terra, madre, origine delle cose, come fisico, mentale, completo. In una specie di evoluzione del pavimento di tele, anche qui parto dai piedi: se il pavimento installato al Forte San Briccio voleva sensibilizzarli, la terra cruda li muove in definitiva della forma attiva. Potrei dire che i miei piedi mi hanno portato dai pigmenti, i pigmenti mi hanno portato al pavimento e ai piedi di tutti, i piedi di tutti mi hanno riportato ai miei». 
Come evolvono percezione e comunicazione nella transizione tra la tua pittura e l’installazione? 
«Il passaggio tra pittura, scultura, installazione o performance, avviene in modo spontaneo: lascio che il lavoro porti il vestito che deve indossare. Nell’installazione in galleria A+B ho cercato una sintesi dei mesi trascorsi in Ungheria. Vályogtéglák, i mattoni di terra, hanno il cuore del progetto, sia idealmente, sia dal punto di vista fisico. Il mattone è il pezzo che si unisce al tutto nella costruzione dell’unico, ma qui lo lascio singolo, singolo di cinque, i cinque elementi che compongono lo stesso mattone singolo. Le due teche, senza titolo, incarnano il senso completo della ciclicità, l’una chiusa, immutabile e ferma, a conservare i fogli che hanno generato i frammenti di terra contenuti nell’altra, questa volta aperta, e che continua a modificare nel tempo, a tornare polvere e a raccogliere polvere. Anche Otthonok, segna questo circolo, insieme alla figura della casa-archetipo, della dimora-madre che mostra un ciclo giornaliero, quotidiano: dove inizia, continua e ritorna. Spesso la durata dei miei lavori è dettata dalla stessa materia: a volte il materiale è fragile, come la teca esposta in galleria, altre invece muta con i componenti, come negli assemblaggi, i pezzi sembravano già aver terminato la loro vita, ma nell’unione con altri oggetti dalla simile sorte riacquistano la possibilità di continuare la loro storia». (Marco Ticozzi)

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