22 gennaio 2019

TRE DOMANDE A…

 
Dove si incrociano arti visive, coreografia e video: intervista ad Ambra Pittoni
di Giulia Colletti

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La ricerca di Ambra Pittoni gioca all’incrocio tra arti visive, coreografia e video. L’artista sembra concepire i suoi lavori come una mappa in cui i processi di osservazione, studio, condivisione, esperienza e apprendimento si attivano simultaneamente, invocando e provocando l’attenzione dello spettatore. 
Nel 2009 hai fondato Ze Coeupel con Paul-Flavien Enriquez-Sarano. In che modo la tua e la sua formazione – arti visive e coreografia tu, scrittura e informatica lui – s’incontrano?
«Comincio col dire che Ze Coeupel è un nome che non usiamo più seppur la collaborazione tra me e Paul-Flavien sia sempre continuata. Ze Coeupel, è un nome nato per scherzo dalla trascrizione fonetica della pronuncia francese delle parole inglesi. Quando abitavamo a Berlino, dove ci siamo conosciuti, abbiamo passato un intero periodo a parlare solo in Franghlish e conseguentemente a trascriverlo. Con il tempo, senza un motivo particolare, o forse perché abbiamo un po’ smesso di parlare Franglish, abbiamo lasciato il nome Ze Coeupel per i nostri. Venendo invece alle nostre rispettive formazioni, direi che il punto d’incontro delle nostre pratiche è la creazione di spazio: nel nostro lavoro, la coreografia, non è da intendersi come mera composizione di gesti e movimenti organizzati su un ritmo, ma come pensiero che diventa “spaziale” mentre la scrittura è temporalità incarnata. L’informatica, poi è una forma di scrittura capace di creare uno spazio “altro” e infine gli oggetti, volendo ridurli al solo campo delle arti visive, possiamo dire che per noi contano soprattutto nel loro essere presenza o meglio, ciò che ci interessa maggiormente è la loro agentività, l’effetto che essi hanno sullo spazio in cui si trovano e sul tipo di condizione che si viene a creare al suo interno. La pratica risultante dall’incontro di questi quattro campi del sapere serve ad articolare il virtuale con il materiale, in un’ottica di “magia”, non intesa come pratica esoterica, ma piuttosto come “tecnologia” in grado di offrire un piano su cui il mondo materiale e quello immateriale possono entrare in relazione e avere lo stesso valore. Uno dei format che più utilizziamo, è quello della lecture-performance che io uso definire “spazializzazione del pensiero” e che in vari modi contiene tutto questo».
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Ambra Pittoni e Paul-Flavien Enriquez-Sarano, The Air Talking tutorial, video, courtesy dell’artista

Il corpo è per voi strumento di riflessione politica, penso alla vostra performative-talk, Manuale dell’Air Talking.
«L’Air Talking è per l’appunto una lecture-performance che ha avuto una lunga e stratificata evoluzione, sia nella sua articolazione teorico-politica che nella sua manifestazione estetica. In questo lavoro, il corpo è assolutamente luogo e pratica del politico. L’Air Talking è una disciplina inventata da noi che ha lo scopo di produrre un corpo specifico. Produrre corpo, significa incarnare delle nuove regole applicando un nuovo protocollo comprendente un codice di gesti, ma anche le parti più “gassose” del movimento che sono il comportamento, la postura e il modo di abitare lo spazio. Elevando la simulazione a disciplina in sé, l’Air Talking mette in atto una vera e propria economia della presenza e conseguentemente dell’assenza nell’ambito del lavoro di “socializzazione totale”, come lo definisce Sven Lutticken, così inesorabilmente insito nel modo di lavorare odierno. L’idea, ironica e seria allo stesso tempo, è quella di creare una strategia di sottrazione e di assenteismo nell’era della Super Presenza. Per fare ciò abbiamo arricchito il manuale con una lecture in cui articoliamo lo sciamanismo Tunguso all’assenteismo operaista, alla performatività senza fine degli Zombie, alla strategia corporea di Bartleby etc. Il manuale che abbiamo pubblicato in italiano e in inglese è un libro e allo stesso tempo un dispositivo da attivare. In questo modo il corpo dell’Air Talking si produce a partire dal singolo e può espandersi alla situazione collettiva».
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Ambra Pittoni, Paul-Flavien Enriquez-Sarano, Lucrezia Calabrò Visconti, The School of the End of Time, courtesy The School of the End of Time

Nel tuo lavoro punti su processi di ricerca collaborativi a lungo termine. Hai da poco istituito The School at the End of Time, una piattaforma parte del programma educativo della 6 Moscow International Biennale For Young Art. 
«Sì e in questo caso si tratta di una collaborazione a tre, che include, oltre a me e Paul-Flavien Enriquez-Sarano, la curatrice Lucrezia Calabrò Visconti. Sicuramente la mia propensione a costruire progetti collaborativi viene dalla pratica coreografica e più in generale dal teatro, in cui il lavoro è sempre fatto in gruppo e in cui l’ascolto della collettività è fondamentale per la riuscita del progetto. Nel caso della Scuola della Fine del Tempo si apre però una dimensione ibrida in cui l’artistico e il curatoriale si fondono creando un territorio inesplorato. Come hai menzionato, The School of the End of Time parte dalla ricerca come attitudine, laddove cerchiamo di costruire dispositivi e situazioni che permettano alla conoscenza prodotta dall’arte di venire a galla, rispettandone la dimensione di indefinibilità e opacità. L’immagine che abbiamo usato per la comunicazione è estremamente eloquente: una stanza all’interno della quale si trova un pallone enorme che la occupa quasi per intero, come se, la conoscenza che viene prodotto dall’arte, sia estremamente presente, tangibile e allo stesso tempo inafferrabile con il solo strumento dell’intelletto. La Scuola della Fine del Tempo invita, attraverso i suoi strumenti e le sue pratiche, a sviluppare e usare un nuovo tipo di intelligenza, in cui non c’è separazione, ma sincretismo tra il regno dei sensi, del pensiero astratto, del corpo e delle emozioni. In ultimo, proprio il concetto di pratica proviene ancora una volta dalla sfera teatrale per definire il tempo dell’esercizio collettivo e dell’attenzione generosa così da creare una diversa temporalità in cui essere sovrani del modo in cui desideriamo spenderlo, abitarlo o anche farlo scomparire».
Giulia Colletti 

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