13 febbraio 2019

If you’re going to San Francisco

 

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Forse oltreoceano conviene andarci, shutdown e altri stravolgimenti permettendo, anche per fare una visita istruttiva al patrimonio museale che detiene una quota esorbitante delle opere degli autori che hanno gettato le fondamenta dell’arte contemporanea e che possono darci un contributo illuminante alla percezione e valutazione degli attuali infiniti esperimenti creativi. In particolare fra lo sterminato patrimonio accumulato nei musei delle due metropoli californiane, Los Angeles e San Francisco, aggirandosi nella produzione statunitense si riconosce tuttora con chiarezza quella temperie del dopoguerra nel nuovo mondo vincente che si irradiò nelle culture aldilà degli oceani consentendo di farne sviluppare i segni dirompenti. In più nella mitica west coast, si percepisce un’aura particolare più americana, piena di tracce del passato ispanico e dei nativi americani come delle grandi trasmigrazioni pioneristiche e della subalternità agli influssi anglofili e ora dell’orgoglio di inventori di modernità. Si legge una comunità più autoreferenziale e meno globalizzata, ma certo anche lontana dalla strisciante “pancia” trumpiana dell’America first, e cogliendone la diversità potremmo trarre dei suggerimenti per riscoprire le peculiarità del nostro essere europei, forse non migliori, ma certo specificamente connotati. 
San Francisco in particolare ha costruito negli ultimi decenni un proprio sistema città/architettura/museo/innovazione tecnologica. Il lungo percorso per coniugare architettura e arte contemporanee è iniziato con la scelta di riconvertire il quartiere South of Market, dopo la delocalizzazione dei mercati, con l’obiettivo di rinnovare i modi di fruizione dello spazio urbano, diffondere la comprensione della produzione artistica internazionale e dell’area americana e favorire l’integrazione multiculturale. Il Moscone Center (in memoria di George Moscone il sindaco assassinato nel 1978 con il difensore dei diritti gay Harvey Milk) centro per mostre e congressi, costruito nel 1981 (degli architetti Hellmuth, Obata & Kassabaum) è stato il primo tassello per il nuovo art urban district cui seguì nel 1993 lo Yerba Buena Center for the Arts (degli architetti Fumihiko Maki e James Polshek) complesso di spazi per musica, danza, laboratori creativi, biblioteche conferenze etc. 
Nel district la funzione culturale si consolida nel 1995 con la costruzione del San Francisco Museum of Modern Art (SFMOMA) affidato allo svizzero-italiano Mario Botta per riunire le collezioni di arte moderna sparse in diverse sedi (dipinti, sculture, installazioni, fotografie, architettura, design e arte multimediale); l’integrazione sociale viene perseguita con il Museum of the African Diaspora nella St. Regis Museum Tower di Skidmore, Owings and Merrill e ancora il California Historical Society e il Museum of Craft and Folk Art e nel 2008 con l’ampliamento del Contemporary Jewish Museum già presente dal 1984 su progetto di Daniel Libeskind – un piccolo volume di cristallo nero di grande impatto visivo.
Il processo non si esaurisce nell’art district; dopo il terremoto di Loma Prieta del 1989 quando si decide la ricostruzione all’interno del Golden Gate Park del California Academy of Sciences dal 2002 al 2008 la qualità dell’architettura vive un profondo cambiamento. Se per un aspetto la sostenibilità è stata il cardine e l’obiettivo della progettazione del nuovo complesso di Renzo Piano Building Workshop, il suo fulcro compositivo è l’idea di museo aperto organizzato intorno ad una piazza per creare un polo urbano e aggregare le sue parti – un acquario, un planetario, un museo di storia naturale oltre alle aree della ricerca – e una copertura-giardino che si integra e confonde nel paesaggio circostante per ridurre fortemente l’impatto volumetrico all’interno del parco. Soluzioni adottate: uso di materiali riciclabili, legno da foreste a gestione sostenibile e recupero di quelli ricavabili dalle preesistenze come l’acciaio e le scorie in calcestruzzo, riutilizzo delle tonnellate di sabbia provenienti dagli scavi nei progetti di rifacimento delle dune della vicina Ocean Beach e predisposizione degli spazi espositivi per sfruttare al massimo illuminazione e ventilazione naturale con attento uso dell’acqua e dell’energia. 
Nello stesso periodo di fronte al museo di Renzo Piano, nel 2005 sorge la nuova sede del M. H. de Young Memorial Museum anch’esso distrutto dal terremoto e ricostruito su progetto degli architetti Herzog & De Meuron in un riuscito equilibrio tra esigenze espositive, qualità architettonica e integrazione con il paesaggio naturale. Un’istituzione che scaturì dalla California Mid-Winter Exposition del 1894 ma anche grazie ai suoi ingenti profitti, e raccolse i seimila oggetti lasciati dall’esposizione, la collezione personale di M. de Young, e migliaia di oggetti donati dalle famiglie di San Francisco per preservare i manufatti dell’epoca della febbre dell’oro. Ora ospita opere d’arte americana, africana, orientale e delle civiltà precolombiane e anche di arte moderna e contemporanea (tra gli americani a partire da Mary Cassatt, Winslow Homer, John Singer Sargent, James Abbott McNeill Whistler poi Richard Diebenkorn, Edward Hopper, Sol LeWitt, Morris Louis, John Marin, Robert Motherwell, Chiura Obata, Georgia O’Keeffe, Claes Oldenburg, Kiki Smith, Wayne Thiebaud, Grant Wood fino alle ultime leve)
La visione dello spazio museale integrato allo spazio pubblico viene assunta anche nell’ampliamento del 2016 dello SFMOMA, opera dello studio norvegese Snøhetta, che risulta profondamente differente dal preesistente museo di Botta cui letteralmente aderisce. Il nucleo originale è geometrico, dai volumi netti quasi monumentale, l’addizione è invece sfuggente, imprendibile da un unico sguardo e ha mirato a realizzare un luogo di socializzazione, aperto e pubblico, terrazze con vista sulla città, un giardino verticale spazi di socializzazione a completare la riconversione e l’integrazione urbana dell’art district; differente per la scelta dei materiali, per le componenti cromatiche e soprattutto sul piano tecnologico, puntando su isolamento termico, impianti evoluti per il riscaldamento e raffrescamento, sistemi per la gestione intelligente dell’illuminazione e sistemi di recupero e riuso dell’acqua piovana. La raccolta del nuovo museo conta un patrimonio ormai di 33 mila opere di arte contemporanea e del dopoguerra comprendendo anche le mille e più della collezione Fisher prestate nel 2016 per la nuova ala (ironicamente definita Museo Fisher) con un accordo della durata di cento anni: raccolta cospicua per ciascuno degli artisti americani come Alexander Calder, Chuck Close, Willem de Kooning, Arshile Gorky, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Barnett Newman, Jackson Pollock, Mark Rothko, Robert Rauschenberg, Frank Stella, Clyfford Still, Cy Twombly, Andy Warhol, dei californiani John Baldessari e Ed Ruscha e anche di artisti internazionali. 
Questo sistema culturale oltre a presentare raccolte permanenti punta molto anche sulle esposizioni temporanee di cui val la pena citare le principali della stagione invernale per evidenziare l’apertura della sua impostazione. Allo SFMOMA quattro monografiche: Louise Bourgeois – Spiders un’accurata selezione di sculture di diversa dimensione a partire dagli anni novanta; Wayne Thiebaud piu di cinquantanni di produzione di questo artista californiano antesignano del pop raffrontato al nostro Morandi e illustratore di Calvino; Brassaï (Gyula Halász) il grande fotografo ungherese naturalizzato francese “l’occhio di Parigi” secondo Henry Miller viene proposto con una vastissima scelta di scatti di vita parigina e ritratti di scrittori e artisti (come gli amici Picasso o Dali); Vija Celmins affermata visual artist lituano-americana la cui ricerca più personale e affascinante riguarda dipinti e disegni foto-realistici di fenomeni naturali, campi oceanici, ragnatele o firmamenti stellati. La mostra collettiva Art and China after 1989: theater of the World espone lavori di oltre 60 artisti e gruppi di artisti che registrano i cambiamenti sociali che accelerarono l’ascesa della Cina come potere globale a partire dalle manifestazioni di Piazza Tiananmen nel 1989 fino ad arrivare alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Attraverso una serie di performance, dipinti, fotografie, installazioni, video e progetti a sfondo sociale, la mostra si interroga sul consumismo, autoritarismo e il rapido sviluppo che ha trasformato la società cinese e il ruolo di questa nazione nel mondo. Al de Young Memorial fra le altre: Steve Kahn: The Hollywood Suites presenta la serie di foto del 1974 in parte presentata a Paris Photo nello scorso novembre al Grand Palais; Gauguin: A Spiritual Journey una cinquantina di opere prestate in gran parte dal Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen e al Contemporary Jewish Museum “Lew the Jew” Alberts (1880–1954) su un soggetto, il tatuaggio, e un artista inconsueto del primo novecento nella Bowery a New York di cui vengono presentati foto di lavori originali e documenti. Allo Yerba Center all’interno della manifestazione ora in corso per il 25 anniversario Bay area now un’altra iniziativa anomala Beyond bloodlines: queerness, kin, family (Oltre il legame di sangue: sessualità differenti, parenti, famiglia) nell’ambito dell’opera di integrazione e promozione sociale, uno dei ruoli più innovativi svolti da questo centro. 
Il processo descritto di integrazione fra arte, architettura e città a San Francisco forse può dirsi sia cominciato simbolicamente nel lontano 1947 quando Frank Lloyd Wright realizzò la Circle Gallery un piccolo gioiello di architettura in pieno centro; un edificio basso che interrompe un’alta cortina edilizia con una facciata piena, in mattoni rossi, su cui si apre solo un arco per l’ingresso alla galleria d’arte: dentro un pozzo di luce circondato da una morbida rampa a spirale che si affaccia nel vuoto centrale: un modello a scala ridotta, una “prova d’autore”, del museo Guggenheim che faticosamente stava realizzando in quegli anni a New York. Visitando questo tesoro riposto si apprende che dopo molte destinazioni è divenuto la sede di Isaia, il brand italiano di abbigliamento maschile di lusso, che lo ha perfettamente restaurato a riprova della sua linea di valorizzare la tradizione; e quando per caso nella mostra di Caragh Thuring appena inaugurata alla Thomas Dane di Napoli si legge che la sartoria ha messo a disposizione dell’artista scozzese tessuti di una particolare lana a motivi tartan per alcune sua opere si scopre anche la sua attenzione al contemporaneo. 
Così da spingere a credere che la creatività oggi sia un loop indistricabile in un tempo dilatato e in un territorio senza confini. (Giancarlo Ferulano)

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