14 febbraio 2019

A Forlì, l’arte di Hayez e Segantini ci interroga sull’identità italiana di oggi

 

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Rossini e Hayez erano grandi amici, si erano conosciuti a Roma. Il primo detto dai contemporanei “il Napoleone della musica”, si ritirò a vita privata a soli 37 anni dopo una folgorante carriera. Hayez invece continuò a lungo a produrre quadri con un ritmo impressionante. Lydia Borelli fu una attrice famosa del tempo. Giuseppe Garibaldi si spense a Caprera nel 1882, solo otto giorni dopo Vittorio Corcos offrì in dono al Comune il suo omaggio pittorico. Gemito che conobbe Verdi in occasione della rappresentazione dell’Aida a Napoli esegui diversi ritratti in cera. Di grandi personalità e di questi e altri mille incontri fortuiti, incroci tra vita e opera, scambi d’omaggi tra grandi personaggi ne dà conto una mostra a Forlì, “L’Ottocento. L’arte dell’Italia tra Hayez e Segantini”. E lo fa nel pieno spirito eroico e autocelebrativo dell’epoca ottocentesca, un’aria che ancora si respira tra le stanze del San Domenico. 
Il museo, pur non possedendo una propria collezione (se non qualche raro pezzo, come la Ebe del Canova) ha ottenuto in via eccezionale numerosi prestiti. Ed eccezionale è anche la proposta espositiva a cura di Fernando Mazzocca e Francesco Leone che, con 160 opere, spiega un secolo di rivolgimenti politici, geografici e sociali, un periodo che ha visto nascere l’Italia come nazione “una, unica, unitaria”. Il risultato, che giustifica il numero sovrabbondante di pezzi, è quello di un progetto più divulgativo e presuppone un pubblico più fragile e da educare, un pubblico che corrisponde alla parte più giovane della nostra società civile. 
Giusto sarebbe pensare di educarla al sentimento della patria, cosa che tra l’altro consentirebbe una maggiore conoscenza storica e di conseguenza più attenzione anche per il nostro patrimonio artistico, ma cosa si intende oggi quando parliamo di patria? Cos’è oggi l’Italia? I valori del Risorgimento fino alle lotte, i sacrifici dei partigiani cosi come il monumento a Vittorio Alfieri di Antonio Canova, inserito poi nei Sepolcri di Foscolo, che senso hanno ancora alla luce del complesso panorama che stiamo vivendo? Un momento di rimappatura di confini e popoli che va di pari passo alla rielaborazione di un’idea di nazione. In un Paese in cui si torna fortemente a discutere di invasione del territorio e di immigrazione o diritto di cittadinanza, chi sono oggi gli italiani? 
Ecco allora che una mostra come questa sull’arte dell’Italia negli anni della sua formazione, inevitabilmente rilegge anche se non apertamente questo argomento oggi controverso, soprattutto se ci troviamo davanti a quadri o sculture che per la maggiore sviluppano temi d’identità nazionale, come dinnanzi al gesso in onore di Dante Alighieri a opera di Vincenzo Vela, al busto di Giuseppe Verdi di Vincenzo Gemito o al ritratto di Gioacchino Rossini, che dell’Italia del tempo sono stati lumi e portavoce, insieme ad Alessandro Manzoni (in mostra c’è il busto di Gerolamo Moneta) e a Giovanni Verga che, proprio come nel bronzo del minatore di Enrico Butti, portò alla ribalta della letteratura i “diseredati”, gli ultimi, chi lavora in condizioni precarie e disumane. La grande tavola a olio di Angiolo Tommasi con Gli emigranti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, o le Ciacole di Alessandro Milesi dal Mart di Rovereto, sono pezzi emblematici in tal senso. 
Ma l’arco temporale che il progetto espositivo forlivese copre, quasi in contemporanea alle mostre milanesi sul Romanticismo, è decisamente molto ampio e va dalla stagione di Francesco Hayez, cioè la prima metà del secolo fino a Segantini e oltre, fino ai primordi della pittura di Umberto Boccioni e Giacomo Balla. La rivoluzione romantica si è diffusa a macchia d’olio, toccando anche il pennello di Hayez. Primo artista che vediamo in mostra con le donne bibliche, Ruth e Tamar, il pittore veneziano è romantico nei contenuti e nei temi ma non si converte mai alla forme, restando cosi neoclassico. 
E ancora, il rapporto tra l’essere umano e la realtà che lo trascende, cioè la poetica del sublime, tocca le corde di Leopardi e Pascoli e in pittura della corrente dei Macchiaioli. Questo un altro punto forte che la mostra ripercorre. E poi le donne, tante, belle, madri o intriganti, eleganti. L’olio di Giovanni Segantini, Le due madri, è un pezzo straordinario. Altera la palermitana Donna Florio di Pietro Canonica, più raffinata e longilinea la contessa Morosini di Lino Selvatico, eterea  la Maraini Sommaruga di Vittorio Corcos, mentre è immersa in una luce solfurea nell’opera la “tazza dorata” di Emilio Rizzi, soprattutto se messa in parallelo alla principessa di Sant’Antimo di Hayez dal museo di San Martino di Napoli e al busto che emana luce di Lydia Borelli sempre del Canonica. Come già nella prosa di Giosuè Carducci, la loro bellezza, messa in relazione alla grandezza estetica del paesaggio italiano, agisce come se facesse «riattivare l’energia vitale che le tombe tengono conservata», scrive Mazzocca in catalogo. 
La regina Margherita di Savoia, ritratta da Giuseppe Bertini, in opposizione alle donne fatali di altri quadri o romanzi appare una “mite incarnazione di forze positive che sorvegliano sulla salute del Paese. Della dinastia sabauda, Margherita fu la prima regina, alpinista e donna di grande avvenenza, sapeva accattivarsi le simpatie del popolo. Ma non ci sono solo le donne. E se c’è un’altra grande messa a fuoco è sul ritratto, genere che nell’800 ebbe grande sviluppo, a testimonianza di una espressione sociale che dava grande peso alle imprese anche individuali e non soltanto di massa per il raggiungimento di un obiettivo comune. 
Parallelamente però le grandi tavole che raccolgono la voce del popolo in subbuglio o di donne e uomini al lavoro sono un soggetto molto caro in questo periodo storico. Non è un caso infatti se accanto a La strage degli innocenti di Angelo Visconti, o ai Vespri Siciliani di Michele Rapisardi (tra i pochi artisti di scuola meridionale in mostra) ci siano anche opere rappresentative come l’Alzaia di Telemaco Signorini del 1864. 
Insomma, la mostra è un omaggio corale al Bel Paese, toccando, dove più, dove meno, quasi ogni tema del secolo in questione. E quella “gloria” che Leopardi non trovava, oggi, nonostante il poeta potrebbe lamentarne ancora l’assenza, tocca cercarla altrove, tra quadri e sculture. (Anna de Fazio Siciliano)

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