15 febbraio 2019

Qui Los Angeles/6. Frieze Projects tra i set dei Paramount Studios, ovvero, è meglio la location

 

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Se sotto la tensostruttura della fiera la qualità è altissima, i “projects” curati da Ali Subotnick non sono proprio all’altezza. O, forse, non ha funzionato la commistione tra arte contemporanea a larga scala e set cinematografici nei quali si può entrare. Perché? Perché gli Studios della Paramount sono già un’opera di per sé: sono l’incarnazione della settima arte, la realtà che diventa finzione e il compensato che diviene mito. Così, vip e compagnia bella si sono divertiti molto a scoprire esterni newyorchesi con le palme di L.A. sullo sfondo di un cielo che, fortunatamente, nell’arco della giornata, è tornato azzurro dopo una mattinata di pioggia a tratti equatoriale. 
Barbara Kruger, con i suoi stickers spalmati sull’asfalto in cui chiede “Chi compra i soldi?” e “Hai fame?” o “Sei felice?”, non convince particolarmente, così come il barattolone di ketchup gonfiabile (nella foto) di Paul McCarthy. Diciamo un po’ scaduto. Nota di merito, invece, all’invasione di tubi verdi – vermi? Arbusti? Orrori vari? – di Trulee Hall, presentata da Maccarone di New York, che partono da una finta stazione della subway della Grande Mela e si infilano nelle finestre di una tipica casa brownstone. 
Tutto il resto, compresi i panni stesi High & Dry di Hannah Greely, che trasformano la più antica cittadella del cinema di Los Angeles in una sestiere veneziano, passa un po’ indifferente, per lo stupore di essere lì. In una fiera d’arte. Che funzionerà forse anche per questo suo essere un accattivante luna park. (mb)

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