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Allen Ruppersberg è forse uno di quegli artisti che, nonostante la sua vicinanza a Ed Ruscha, William Wegman e John Baldessari, e le sue partecipazioni a “When Attitudes Become a Form”, a Documenta nel 1972, a Sculpture Project nel 1997, oltre alle personali al MoCA di Los Angeles e al New Museum di New York, è rimasto un poco nell’ombra di una pratica che ha scavato nel linguaggio e nella cultura vernacolare americana, dagli anni ’60 a oggi.
La mostra all’Hammer Museum – istituzione creata partendo dal fondo dell’ex Presidente dell’Occidental Petroleum Corporation, Armand Hammer, amante, tra gli altri, di Tiziano, Van Gogh e Rembrandt, che potete vedere nella collezione permanente – è la più importante retrospettiva dedicata a Ruppersberg negli ultimi trent’anni e mette insieme un corpus di quasi 120 lavori, creati in mezzo secolo di “Intellectual Property”, titolo della mostra, presentata nel 2018 al Walker Art Center di Minneapolis.
Ruppersberg tramuta il linguaggio verbale in immagini, in poesie della strada, vira all’assemblaggio, antecede la Narrative Art, si nutre di pubblicità e riviste, di film e musica, di collage e milioni di parole che cambiano di tono, di piano, di significato. Ruppersberg è un performer, quando mette in scena gli ambienti Ali’s Café (1969) e Ali’s Grand Hotel (1971), entrambe “situazioni” che consacrano Los Angeles a Capitale dell’arte Concettuale. In mostra, allora, la dislocazione e l’assenza, il libro come oggetto e soggetto, la memoria e il ricordo, i temi di una narrazione fortemente cromatica, sincopata. E che a sua volta si mostra devota a Los Angeles e al suo fascino ambivalente, di gloria e miseria. Ruppersberg è, forse, il concorrente di John Giorno sulla West Coast: meno attore e più linguista, meno sotto i riflettori, non meno sottovalutabile. (mb)