24 febbraio 2019

Tre visioni dell’arte marocchina durante l’1-54 African Art Fair di Marrakech

 

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Dalla posizione privilegiata dell’Hotel Bab, il flusso di collezionisti e curiosi specialmente francesi pare inarrestabile. Alla grande Galleria Comptoir de Mines, un edificio Déco con terrazzi all’italiana anni ‘30, ho la fortuna di osservare gli ultimi ritocchi della mostra (e sappiamo tutti che “Dio sta nei dettagli”) e conoscere gli artisti prima del grande vernissage del 21 febbraio: le opere di Mohammed Arejdal (1984), di Hassan Hajjaj (1961) e di Mustapha Akrim (1981) sono, nel laboratorio vivo che è questa Galleria, quelle che più mi colpiscono dentro la mostra collettiva “Poésies Africaines”, visitabile fino al 22 aprile 2019. 
Sul sito istituzionale della Galerie Comptoir de Mines leggiamo: «Mohamed Arejdal a pu poser les bases d’une pratique pluridisciplinaire grâce à laquelle il explore les liens entre groupes sociaux qu’il questionne lors de ses rencontres où voyages». Conoscerlo è tutt’altra musica. A capofitto nelle porzioni meno turistificate della Medina per incontrare gli amici della Queen Residency (uno spazio polimorfo e rizomatico gestito in forma comune da artisti e amici), fino allo spazio di residenza Al Maqman fuori Marrakech. Viaggiamo insieme a piedi e sul suo Renault Kangoo, scopriamo il sapore dell’uno e dell’altro, andando a sondare gli spazi inesplorati di un tempo che anche qui corre veloce, ansiosi entrambi di trovare un’oasi di calma. 
Negli spazi di Comptoir de Mines presenta la sintesi di operazioni estetiche sofferte, vitali e profonde, frutto del suo essere nomadico. 
La scultura Anatomie d’un voyageur si compone della copia in resina di quattro zampe di cammello, estratte dal contesto sociale delle carovane. Le carovane millenarie, oggi, per via della chiusura delle frontiere, “non sono più”. Arejdal nel 2010 ha condiviso un viaggio dalla Mauritania con una di questa e ne ha documentato il lento cammino. Un cammino reale, vissuto e sussunto dentro il suo corpo, sotto la pelle, oggi rivelato in resina, in forma di frattura ossea da curare. Anatomie d’un voyageur è, nella sua vita come in quella del Marocco, il simbolo del cammello, mescolato alla carne dell’animale. L’opera si compone di un filo di rame che serpeggia sopra le zampe e lascia un segno striato collegandosi alle tibie di cammello mediante dei fissatori di Hoffmann. «Le frontiere hanno rotto le ossa ai cammelli, ai viaggiatori e alla cultura del viaggio», mi spiega. 
Attorno a questa scultura la stanza pulsa di altre visioni: l’opera Fracture, un volante si innesta su un osso di gamba di cammello e sulla sua zampa, mentre sculture tessili rievocano Hssira e Khayma con il progetto Territoire Nomades, un villaggio del Sud del Marocco, un’oasi dove l’artista ha vissuto. Le sculture tessili fungono da diario di viaggio, da testo visivo, riecheggiano una tinta di colori folkloristica ma mai scontata, per riportare la periferia al centro dei muri della “las vegas del Marocco”. Nel 2022 Arejdal lancerà la costruzione di una scuola di Belle Arti proprio a Taroundant, per ripensare il Sud del Marocco. 
Hassan Hajjaj con una pratica più consolidata e con un tocco decisamente british, compone delle immagini eccitanti e attrattive, usando l’iconologia marocchina assieme a elementi di fashionbrand di marche famose. In questo caso, ha avuto carte blanche da Hicham Daoudi il visionario gallerista di Des Mines. Hajjaj ha quindi invitato tutte le artiste e gli artisti che contaminano e ispirano la sua poetica a proporre delle fotografie e delle installazioni di cui la più interessante è quella di Meriem Yin, che cuce sopra le foto da lei scattate su attimi sfuggenti della sua vita privata. 
Durante il vernissage, i colori esplosivi e l’ambiente casalingo ricreato da Hajjaj hanno generato una vera e propria danza, dove ognuno si è sentito accolto dalle immagini che sono state esposte in ogni particella, in ogni angolo delle stanze, costruendo ogni singolo dettaglio in una sinfonia complessa. Mi casa su casa è infatti il titolo di questa coraggiosa operazione. 
L’artista vive tra la Medina e Londra, in un continuo scambio e flusso immaginifico tra le due culture, nutrendosi di un’inversione fruttuosa dei canoni classici di interpretazione delle forme artistiche contemporanee: white cube e immagini sacralmente fredde in primis. 
Mustapha Akrim, invece, evoca tradizioni antichissime e di segno tipicamente occidentale in forma critica. In uno spazio vuoto, dove l’architettura italiana troneggia su un tavolo quasi autoptico ma lontano dallo stereotipo in acciaio inox, presenta Nature Morte, dove un capretto, dei pesci e svariati animali giacciono immobili l’uno sopra l’altro. Il cemento delle sculture è trattato come se le forme fossero, da secoli, dal periodo della pittura Fiamminga, lì per essere lì. Lì per il gusto tutto borghese di contemplare un animale raro, un quadro costoso. 
Una domanda che scotta, che rimbomba in tutti i salotti dell’alta società: dove ci sta portando, oggi, l’Antropocene? La risposta è verso una modernità accelerata che sta sacrificando le specie e modificando con prodotti chimici anche la forma dello sperma maschile umano. I due caschi da operaio in cemento, all’ingresso, riecheggiano un omaggio a quella classe di sfruttati che sta costruendo il Marocco moderno, mettendo in relazione anche i suoi vestiti con panneggi della storia dell’arte occidentale. 
Il resto della precedente mostra personale “Chantier II” negli spazi della Galerie Comptoir de Mines mutua lo status di questa galleria ricavata da uno spazio Art Decò: una vivace fucina oltreché uno spazio di mercato e collezione punto di riferimento in Marocco e per l’1-54 African Art Fair. (Gaspar Ozur
In home: Mohammed Arejdal, Anatomie d’un voyageur, 2019. Credit: l’artista e Galerie Comptoir de Mines
In alto: Hassan Hajjaj, Mi casa su casa, 2019. Credit: l’artista e Galerie Comptoir de Mines

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