24 febbraio 2019

L’intervista/ Nikhil Chopra

 
UNA TERRA, UN POPOLO
Incontro con l’artista indiano, in occasione del suo progetto “nomade” alla Galleria Continua di San Gimignano

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San Gimignano, 27 gennaio 2019. Voci di donne che cantano, una litania ancestrale che arriva da un passato presente. Più che afferrare le parole (in bulgaro) ci si lascia abbracciare dalla ripetizione dei suoni, rassicurante come il ritmo di una filastrocca. «Quelle donne, un gruppo di cantanti tradizionali, sono venute a trovarmi nella tenda – racconta Nikhil Chopra (Calcutta 1974, vive a Goa) – Senti che voci straordinarie. Cantano in bulgaro, ma potrebbe essere un’altra lingua. Mi ricordano le canzoni di mia madre». Un bagaglio culturale che viaggia nel tempo, indifferente alle barriere geo-politiche che chiamiamo confini e che l’artista indiano ha raccolto e tracciato nel lungo viaggio (4mila chilometri in 30 giorni) da Atene a Kassel, compiuto tra maggio e giugno 2017 in occasione di Documenta 14. Drawing a Line through Landscape è una performance che continua a viaggiare. Nella platea dell’ex teatro-cinema di San Gimignano, sede della galleria Continua, si traduce in un’installazione spettacolare (visitabile fino al 7 aprile) con la tenda ottagonale al centro dello spazio. L’uscio aperto invita a entrare, osservare, assorbire l’esperienza di ciò che è stato. C’è anche il van con gli oggetti del quotidiano e tutt’intorno i grandi disegni, vedute panoramiche che hanno il sapore delle cartoline postali d’epoca, realizzate da Chopra dipingendo sulla tela della tenda quello che egli ha visto “con gli occhi chiusi e aperti”. Una mappatura del tentativo di oltrepassare confini materiali e immateriali alla ricerca della condivisione, dell’amore e della libertà che non ha nulla di edulcorato, anzi dichiara le fragilità stesse insite nel progetto anche nella memoria di ciò che non è accaduto, come in Ungheria dove il video mostra il poliziotto che spiega all’artista che nelle piazze di Budapest è vietato disegnare e ballare.
La tenda, simbolo di nomadismo, nella platea della galleria Continua è la destinazione finale di un lungo viaggio?
«Non penso che sia necessariamente la tappa finale, perché quando si crea una “bestia”, reale o metaforica, si deve immaginare che possa avere una vita propria. Come nel caso di questo progetto che è cresciuto sempre di più. Non è solo la performance che ha generato il dialogo con il lavoro, ma anche l’installazione in sé creando dialogo e scambio con quello che accade intorno. La tenda può andare in altri luoghi ed essere nuovamente piantata in un altro contesto dando vita a nuovi significati. Mentre la performance si è conclusa, il lavoro rimane lì a raccontare la storia che non è finita ma che, come penso, andrà avanti».
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Nikhil Chopra, Inside Out, 2012 (ph Shivani Gupta – Courtesy galleria Continua)

Nel dipingere il paesaggio sulla tela delle pareti interne della tenda c’è anche l’idea di qualcosa di esterno che entra all’interno?
«Può essere anche solo il documento, la registrazione del momento. Nella storia di questo paesaggio è evidente che ci siano delle presenze nel paesaggio stesso. In questo contesto, comunque, la relazione con il paesaggio è molto personale. In parte proviene dalla mia storia personale, ma l’intento è che diventi politica, la storia di tutti. E’ stato molto importante che, nel momento in cui ho dipinto quei paesaggi, all’interno della tenda ho creato una relazione con il pubblico. Chiunque sia entrato nella tenda durante la performance ha avuto una relazione personale con ciò che stavo disegnando. Ciò che appare come una relazione dolce e passiva del fare arte, in realtà è un atto politico. Per esempio il percorso stesso che stavo seguendo era quello che per migliaia di anni è stata una rotta di migrazioni di genti. Non solo quella storica degli zingari, ma in relazione all’attuale situazione, delle persone che scappano dalle loro case in Siria, dal mondo arabo – i curdi o altri popoli – e che, attraverso la Grecia, arrivano in Germania con la speranza di un futuro migliore, della salvezza e della libertà per sé e i loro figli. In questo senso il progetto è diventato molto politico, considerando anche quello che non si vede, come le conversazioni che hanno avuto luogo all’interno della tenda. La tenda, infatti, ha funzionato in modi diversi. E’ stata un’aula, una sala di lettura, uno spazio della comunità, un luogo di relax, un parco giochi. Ecco a cosa mi riferisco quando parlo della creazione della “bestia” o dell’”animale”. In chiave metaforica più un qualcosa che pensi e fai, ma che diventa un po’ come Frankenstein: cresce da sé con l’aggiunta di ingredienti e prende vita».
La tenda è anche il contenitore di oggetti che ti appartengono: abiti, pipe…
«Sì. Tutti gli oggetti sono molto personali e appartengono al mondo che è stato creato intorno alle performance, ma in realtà nessuno di questi proviene dalla mia vita, perché sono stati acquistati o creati specificamente per questa performance. L’idea è che quando si entra dentro una tenda è come entrare nella vita di qualcuno. In questo progetto, in particolare, l’esperienza è stata veramente strana, perché da una parte venivo ospitato all’interno di una tenda che era stata montata da altre persone e dall’altra, una volta che la tenda era montata, ero io ad ospitare loro. Le persone stavano nel mio spazio personale, sedevano sul mio materasso, mi guadavamo mentre facevo i disegni, magari bevevano del vino o dell’acqua e c’era sempre qualcosa da mangiare».
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Drawing a Line through Landscape, 2017 ph Ilan Zarantonello, OKNOstudio – courtesy galleria Continua)

Hai percorso oltre 4mila chilometri tra Atene e Kassel in 30 giorni. Qual era la relazione tra tempo e distanza?
«Penso che ci sia stata l’evocazione di molti tempi e spazi. Qualcosa di legato al muoversi lentamente che contrasta l’ossessione della velocità del mondo contemporaneo digitale post-industriale. L’idea era quella di non attraversare di corsa il paesaggio, ma di camminarci e anche di fermarsi per guardarlo. Oggi, infatti, la relazione che abbiamo con il paesaggio è di correre e catturarne immagini con il cellulare. Qualcosa da mettere in tasca. Invece, ho voluto contrastare questa relazione con la grande disponibilità di immagini… mi piace, non mi piace… il poterle cancellare immediatamente e prenderne altre. Un altro selfie…È stato un esercizio non necessariamente solo nel relazionarmi al paesaggio, ma anche al ritratto e all’autoritratto, confrontandomi anche con le persone che cercavano di capire quello che stessi facendo senza che glielo dovessi spiegare. In un certo senso la relazione tra tempo e spazio è collassata nel riferimento al qui ed ora, soprattutto quando mi sono posto domande del tipo dove sto andando o da dove vengo. Quando ho ricevuto l’invito da parte di Documenta (il progetto commissionato da documenta 14 è stato supportato da Piramal Art Foundation, Payal e Anurag Khanna, Galleria Continua e Chatterjee & Lal – ndR) ero decisamente eccitato dal fatto che la mostra fosse organizzata non solo a Kassel, ma anche ad Atene. Il progetto è durato parecchio, ma la prima cosa su cui ho riflettuto è cosa ci fosse in mezzo tra Kassel e Atene. La distanza tra questi due punti doveva essere misurata. Il progetto è nato così, con l’intenzione di far collassare la distanza tra quei due luoghi e anche la nostra relazione con il tempo».
In mostra vediamo anche un video che testimonia i problemi che ci sono stati a Budapest. Quindi la relazione tra ciò che è permesso e ciò che è proibito…
«Sì. Di fatto a Budapest mi è stato chiaro che l’Ungheria non fa parte del discorso di un’Europa liberale, anzi il Paese è piuttosto conservatore. Però ho abbracciato quel momento dicendo a me stesso che non si poteva essere romantici nella relazione con il paesaggio. In Europa doveva pur esserci, da qualche parte, una rottura nella linea del disegno. È successo a Budapest! Non ho fatto altro che assorbire quello che stava succedendo, lasciando che accadesse quello che doveva succedere. È stata comunque una parte di conoscenza e scoperta, anche se non posso dire di essere stato felice. Così come quando stava per succedere un disastro…».
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Drawing a Line through Landscape, Galleria Continua San Gimignano 2019 (ph Ela Bialkowska, OKNO Studio – courtesy galleria Continua)
Che disastro?
«Eravamo in Transilvania e stavamo entrando nel Cozia National Park. Sarà stata mezzanotte, eravamo in mezzo a una tempesta, pioveva da matti. L’autista, però, era bravissimo e, malgrado il tempo, iniziava a salire la montagna attraverso una strada fangosa. A un certo punto si ferma, usce dalla vettura e rientra che sembrava un cadavere. Il carrello non c’era più! Oh mio dio! In quel carrello c’era tutto il progetto, i disegni, i costumi, la tenda…ed eravamo a circa il 70 per cento del viaggio. Steve mi disse di non agitarmi, saremmo tornati indietro. La pioggia continuava a cadere. Lui girò la vettura e cominciò a tornare indietro riscendendo per la montagna. Cercavo di guardare fuori, nei dirupi, nel fiume…il carrello poteva essere finito chissà dove. Cercavo un segnale che mi rassicurasse, perché non potevo proprio perdere tutto il progetto. A un certo punto dalla foresta uscirono fuori due daini. Sembravano due angeli! Si sono parati di fronte alla macchina, erano lì fermi e ci guardavano. In quel preciso momento è come se lo spirito della foresta si fosse palesato dicendomi che non dovevo preoccuparmi e che avrei trovato la mia tenda. I due daini mi guardarono dritto negli occhi e subito dopo sparirono nell’oscurità. Esattamente due chilometri più in là il carrello era su un lato della montagna. C’era qualcosa di rotto nella struttura, ma tutto il resto era a posto. Ero così felice!».
Nel tuo lavoro la fotografia è la memoria della performance?
«In realtà sono interessato alla fotografia molto più che al video. Il rapporto con la fotografia si è sviluppato nel corso di tutti questi anni, fin da quando ho iniziato a fare performance. Penso che la fotografia sia un mezzo che fornisce informazioni così come non le fornisce. Quello che m’interessa è proprio come l’immaginazione si trovi a fare i conti con l’immagine fissa. In un certo senso la flat photography è anche un modo per tornare alla pittura. I video o i film mimano i momenti della vita, perché vogliono interpretare un’esperienza basata sul tempo nella sequenza temporale. Questo si percepisce, anche se l’approccio non è necessariamente documentario quando si tratta di fiction. Personalmente la fotografia mi permette di inquadrare anche ciò che mi voglio lasciare dietro la performance: i costumi, i disegni, tutti quegli oggetti che sono parte della registrazione, di quell’archivio. Ma non sono interessato solo alla fotografia in sé, bensì alla relazione con i fotografi-artisti con cui collaboro come Shivani Gupta, con cui lavoro da 15 anni. Non si tratta solo di scattare in sequenza … clic clic clic… Nell’era digitale si possono scattare 20mila fotografie, ma Shivani ne scatta solo due, aspetta che il momento si svolga e che ci sia l’immagine».
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Drawing a Line through Landscape, 2017 (courtesy galleria Continua)
Fin dall’inizio della tua carriera, del resto, il lavoro è sempre stato basato sulla collaborazione con costumisti (Loise Braganza, Sabine Pfisterer), set designer (Aradhana Seth), musicisti….
«È un patchwork di collaborazioni con tante persone diverse».
Durante la nostra prima intervista (alla Fondazione Fotografia di Modena nel 2012) parlammo di Sir Raja, il primo personaggio di cui hai assunto le sembianze quando eri studente al master in Fine Arts della Ohio University State University di Columbus. Il costume e la messinscena continuano a essere elementi centrali del lavoro…
«Costumi, travestimento e self-fashioning sono importanti perché mi portano fuori dall’ordinario. Non è una maschera, ma è sicuramente un modo per prendere le distanze tra me e la mia vita di tutti i giorni, facendomi entrare nel mondo della performance. Naturalmente quando indosso un costume la relazione con il mio corpo cambia completamente. Sento di non poter avere un dialogo oggettivo con la mia pratica artistica e il pubblico se mi presento come Nikhil, devo uscire dalla comfort zone ed entrare nel disagio».
Un’altra questione che affronti da sempre è quella della colonizzazione e della post colonizzazione…
«E anche decolonizzazione! Proprio come è appannaggio di sciamani, guru o monaci ho ipotizzato un esercizio attraverso la performance. Mi sono chiesto come poter allontanare i fantasmi, esorcizzando un presente in cui i brandelli di anni e anni di bagaglio di storia colonialista ha portato alla divisione delle genti piuttosto che ad una crescita comune. Se parliamo di India, ad esempio, penso immediatamente alla politica e alla situazione culturale, ma non credo che si possa solo parlare di India, bisogna parlare anche di Pakistan. E se si parla di Pakistan bisogna parlare di Bangladesh e poi di Nepal, Sri Lanka, Myanmar, Afghanistan…Questo mi riporta anche alla mia famiglia. Mia madre è di Peshawar che è sulla frontiera nord occidentale, mentre mio padre è del Kashimir che è un’altra frontiera. Quindi, sono indiano? Certe volte ne dubito. Penso che i nazionalismi siano una costruzione postcoloniale con i confini e le delimitazioni. Un lavoro come Drawing a Line through Landscape si propone di far saltare quei confini di Paesi, stati, nazioni. Camminando tutt’intorno all’installazione non ci si rende conto di quella che è la Grecia, la Bulgaria, l’Ungheria…è un’unica terra e noi, fondamentalmente, siamo un unico popolo». 
Manuela De Leonardis

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