26 febbraio 2019

La rigenerazione urbana è anche street art

 
NON VICEVERSA
Disamina di un fenomeno che passa le porte, senza produrre effetti misurabili. Per quanto tempo ancora?

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Che l’Italia possieda, tra i suoi più abili talenti, quello della comunicazione, è fuor di dubbio. Che questo abbia contribuito a rendere celebre il nostro Paese nel mondo, altrettanto.
Siamo abili comunicatori. Abbiamo il bisogno di esprimerci e per questo, spesso lo facciamo molto bene.
Questo talento è meraviglioso: comunicare (e avere il bisogno di comunicare bene) ci porta a comprendere le aspettative dell’interlocutore, e questo ci permette di creare empatia, e l’empatia è una delle chiavi del successo interpersonale.
Allo stesso tempo, però, gli italiani sono anche dei cattivi ascoltatori. Non importa se questo piccolo difetto sia collegato o meno al talento comunicativo, fatto sta che spesso, siamo più concentrati a comunicare che ad ascoltare ciò che ci viene comunicato.
Questo si traduce in una soglia d’attenzione un po’ bassina, e gli elevati tassi di analfabetismo funzionale ne sono una parziale testimonianza.
Cosa c’entra questo con la “Rigenerazione Urbana”? C’entra, c’entra.
C’entra perché abilita comunicativa e poca abilità nell’ascolto determinano una preferenza per ciò che ci permette di essere rapidi nel comprendere. Parole chiave e grassetti nei documenti, colori e grafici negli Excel, opere di street art per i processi di riconversione urbana.
Un salto pindarico? Non proprio. Guardiamo alle politiche culturali degli ultimi anni. Tutte racchiudibili in un hashtag. #domenicaalmuseo; #18app; #ecc.ecc.
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Blu e Ericailcane ad Ancona, photo Francesco Marini
Se ci concentriamo soltanto sul lato “immediatamente percepibile”, rischiamo di perdere il vero valore dei processi culturali, che trovano nell’immediatamente percepibile il risultato ultimo di una serie di fattori. 
Si pensi al rapporto ambivalente che gli italiani hanno avuto con l’arte nell’ultimo secolo, a partire da quando l’arte ha iniziato a manipolare il linguaggio piuttosto che limitarsi ad “usarlo”. Si pensi a Fontana ad esempio, che scatena ancora rappresaglie, nonostante la ricerca artistica si sia spinta ben oltre quel gesto che, nella sua immediatezza, risulta ormai quasi fanciullesco.
Percorso simile può essere evidenziato anche per la Corporate Social Responsibility: internazionalmente è un fenomeno culturale che mira a rendere le imprese private completamente accountable (capaci di rendere conto). Nel nostro Paese, invece, è soprattutto comunicazione. 
Non stupisce dunque, che di quel complesso e intricato processo meglio noto come “Rigenerazione Urbana”, nel nostro Paese si veda solo la street art.
Ma la street art, da sola, non basta per riqualificare un territorio.
Presa da sola, è un intervento di arredo urbano. Nulla di più.
Certo, gli artisti di street art mettono spesso in atto processi partecipativi, o comunque, anche quando non lo fanno, sicuramente riescono ad attirare l’attenzione dei cittadini del quartiere o del condominio oggetto dell’intervento artistico.
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Big City Life, Tor Marancia, Roma
Ma è evidente che questo non basti. 
Un processo di rigenerazione urbana, per essere definito tale, deve presentare caratteristiche inderogabili, e deve produrre effetti misurabili.
Deve, ad esempio, agire sulle infrastrutture materiali ed immateriali del quartiere: viabilità, scuole, riqualificazione dei locali in disuso, empowerment delle organizzazioni del terzo settore, creazione di un network (partnership) tra gli operatori commerciali, intermediazione tra investitori in real-estate e proprietari degli immobili, ecc. ecc. ecc.
Per riuscire in questo intento è necessario strutturare un’organizzazione complessa, che preveda soggetti concertativi (per assorbire le esigenze provenienti dal territorio) e volitivi (per poter orientare il processo di riqualificazione).
Soprattutto, prevede lavoro di back; lavoro che non si vede; lavoro noioso, difficile, fatto di scartoffie, accordi, modelli economici, incontri con la Pubblica Amministrazione, lavori con i fondi di investimento, ecc. ecc.
Il problema reale è che tutto questo non è cool. E così, da geni che siamo, preferiamo non farlo.
Facciamo rigenerazione urbana pagando street-artist e facendo convegni sul lavoro che hanno fatto e su quello che ancora rimarrebbe da fare.
A ben vedere, forse, il più grave errore che tarla e deteriora il settore culturale del nostro Paese è che preferiamo fare le attività più trendy: facciamo brainstorming, eventi e vernissage. 
Prima o poi, però, dovremo capire che ci tocca anche lavorare.
Stefano Monti

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