06 marzo 2019

L’intervista/ Marco D’Agostin

 
RICORDARE TANTO E TUTTO
Filtri, ossessioni, disarticolazioni: le parole di un performer per ripensare la “sostenibilità etica” di una professione

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In Avalanche, visto a Santarcangelo nel contesto della rassegna “È Bal”, il coreografo e danzatore Marco D’Agostin, vincitore del premio Ubu 2018 come miglior performer under 35 e nominato proprio con questo lavoro nella categoria miglior spettacolo di danza, conduce gli spettatori in un viaggio nel tempo. Come guardare un paesaggio attraverso uno zootropio che oscilla tra la delicatezza di una fiaba e un romanzo di fantascienza. Seguire un uomo e una donna che incarnano il passato e il futuro allo stesso tempo, nelle loro figure qualcosa di arcaico e al contempo profondamente infantile, due creature che racchiudono la storia del mondo. 
Ho incontrato Marco a Bologna e conversare con lui è stato piacevole e profondo, abbiamo parlato di memoria e archivio, composizione coreografica e di cosa vuol dire lavorare oggi nel campo delle arti performative, in attesa di vedere la sua ultima creazione First Love, che definisce un risarcimento messo in busta e indirizzato al primo amore, che ha aperto ieri nell’ambito di Vie Festival 2019 organizzato da ERT, Emilia Romagna Teatro.
Nella tua biografia quando parli della tua formazione la definisci disarticolata, che cosa intendi?
«È una questione in parte legata al senso di colpa, che non credo di aver risolto. Ha anche a che vedere con il momento storico in cui ho iniziato a fare questo lavoro e con la specificità del mio percorso. Ho iniziato a danzare tardi, a 21 anni; al tempo non conoscevo la danza contemporanea, nemmeno come spettatore, venivo da un piccolo paese nella provincia di Treviso. Sapevo di volere fare teatro ma non ne vedevo, se non quello a cui mi aveva avvicinato la scuola. Quando sono arrivato a Bologna sono stato travolto dalle informazioni. Il senso di colpa è naturalmente legato alla questione della tecnica: all’inizio pensavo di non essere tecnicamente pronto a essere un danzatore professionista e per molto tempo mi sono mancati gli strumenti per capire che tipo di danzatore volessi essere. La formazione del mio corpo, della mia presenza e del mio pensiero in scena si è articolata assieme alla formazione della mia idea di danzatore. Parlo quindi di “disarticolazione” perché ho nutrito a lungo il pregiudizio secondo il quale una buona formazione è una formazione organica, e io invece nelle pratiche anatomiche nelle quali mi sono addentrato mi sono formato imparando molte cose, molto diverse tra loro, ma sempre poco in profondità, cercando di restituire la profondità al livello del pensiero. Anche se mi è sempre mancata un’organicità nella formazione quello era di sicuro l’unico percorso possibile per me in quel momento: quindi per forza di cose il migliore dei percorsi. In questo momento il discorso collettivo sulla “formazione laboratoriale”, contrapposta a quella accademica, è già stato ampiamente digerito dal sistema, in qualche modo a sua volta istituzionalizzato, per cui sento che le mie sono parole superate. Sta cambiando così tanto il panorama di ciò che accade nella danza e nella performance che la domanda di partenza dovrebbe essere: di che tipo di performer abbiamo bisogno e come li formiamo? Sicuramente saranno performer con una formazione disarticolata o per lo meno che risponda a un’articolazione diversa da quella che abbiamo pensato fino ad ora».
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Marco D’Agostin, foto di Martina de Michelis
Per parlare di coreografia citi Amelia Rosselli: “Quanto alla metrica poi, essendo libera essa variava gentilmente a seconda dell’associazione o del mio piacere. Insofferente di disegni prestabiliti, prorompente da essi, si adattava ad un tempo strettamente psicologico musicale ed istintivo”. Cos’è per te la coreografia? Da quali desideri partono i tuoi lavori?
«Sono un grande lettore di poesia. La cosa che mi ha sorpreso quando ho scoperto Amelia Rosselli è che i suoi componimenti sono dominati da una grande tecnica, ma molto diversa da tutte quelle che avevo conosciuto fino a quel momento. Era una musicista, e come dice nella citazione che hai riportato, componeva seguendo un “tempo psicologico musicale”. Quando ho letto questa frase in cui descrive così sinteticamente il suo modo di operare ho riconosciuto l’afflato che sento quando sono in sala e devo comporre una sequenza. Come dicevo prima non sono un coreografo formato in ambiti accademici e anche se molta parte della mia pratica ha a che vedere con il parlare dei corpi, cercando di risemantizzare di continuo le parole in campo, faccio fatica a verbalizzare il modo in cui compongo. C’è qualcosa di molto istintivo, non ho mai tecnicizzato la scrittura coreografica. Ciò che mi affascina di Amelia Rosselli è l’impenetrabilità dei suoi contenuti e dei suoi versi che è simile all’imprevedibilità fascinosa che la danza può avere. Per quanto riguarda i desideri dirò una cosa che sorprende sempre anche me: pur essendo un autore che lavora poco sulle immagini, sono sempre delle immagini di cui mi innamoro quando inizio un processo. Non lavoro sulle iconografie, ragiono più che altro per temperatura emotive. Claudia Castellucci una volta disse “dovete ammalarvi delle vostre idee”. Il desiderio di comporre, nel suo sorgere, è per me simile a una malattia: le immagini diventano ricorrenti nel pensiero e non si scollano, sono presenti in tutto e rallentano pensieri e movimenti. Come quando ci si innamora».
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Marco D’Agostin, Avalanche, courtesy Centrale Fies, foto di Eleonora Tinti
Archivi, mappe, atlanti. Dispositivi della memoria che sono molto presenti nel tuo lavoro, in che modo li hai utilizzati?
«Solo di recente ho realizzato che ogni mio lavoro è stato il tentativo di creare un dispositivo mnemonico. In alcuni casi in modo puramente rappresentativo, come in Per non svegliare i draghi addormentati. In altri casi il dispositivo è diventato proprio il motore della successione dei movimenti in scena, nel tempo reale della performance, come in Avalanche. Non saprei neanche dire perché ne sono ossessionato e perché qualsiasi tema io assuma come filtro rispetto al lavoro che sto facendo alla fine tutto torna all’atto del ricordare. Sono stato un bambino che amava imparare a memoria le cose, ho sempre praticato molto la memoria nozionistica: c’era qualcosa che mi interessava nell’idea di ricordare tanto e tutto. Credo che questa sia l’ossessione vera dei miei lavori. Non ha a che fare con la questione del corpo come archivio, pur avendo frequentato molti studi che vanno in questa direzione; la questione alla quale guardo è puramente coreografica. La svolta che Avalanche ha avuto rispetto ai lavori precedenti è che si tratta di un inanellarsi continuo di dispositivi coreografici nei quali io e Teresa (n.d.r. Silva) effettivamente siamo chiamati a ricordare delle cose in tempo reale e se non succede la coreografia inciampa. Di tutti i possibili accessi che si possono avere alla questione della memoria non mi sono ancora posto, anche se come artista prima o poi me lo dovrò affrontare, il problema della responsabilità collettiva della memoria. In che modo gestiamo la necessità di ricordare, non solo come attività personale. Certamente abbiamo già dispositivi che riattivano la memoria collettivamente, ma la danza potrebbe crearne di più sofisticati ed efficaci».
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Marco D’Agostin, Avalanche, courtesy Centrale Fies, foto di Eleonora Tinti
Mi racconti qualcosa di VAN?
«Vengo proprio da alcuni giorni con Giorgia (n.d.r. Nardin) e Francesca (n.d.r. Foscarini) con cui ho fondato VAN, che ha altri cinque artiste/i associate/i. Ci siamo presi un tempo per capire che strada far prendere a questa associazione che nonostante la natura plurale per noi non è mai voluta essere un’agenzia. Quest’anno abbiamo deciso di porci e porre degli interrogativi circa la “sostenibilità etica” del nostro lavoro. Già da un anno in questo senso abbiamo cominciato una serie di attività che si pongono a lato dei processi creativi, che ci chiedono di investire risorse di energia, tempo e denaro ma che sono vitali e danno un senso al nostro essere insieme: Archivio Anno Zero, curato nella sua prima edizione da Gaia Clotide Chernetich; Oroscopo, un think tank aperto a tutti i professionisti della danza in Italia e Extra, momento di ricerca e riflessione dedicato ai coreografi interni a VAN. Rimodelleremo tutte e tre le proposte attorno a un’esigenza che noi sentiamo molto forte che è quella di diventare una specie di sindacato filosofico; lamentiamo molto il senso di solitudine rispetto ai nostri colleghi, con i quali ci si parla poco e non si trovano vere occasioni di lavoro insieme al di fuori dei processi produttivi. Coadiuvati da esperti, scriveremo un manifesto che vorremmo adottare come strumento per un’etica interna al gruppo e poi diffonderlo in Italia per permettere a chi vuole di adottarlo a propria volta. Faremo la seconda edizione di Oroscopo, sperando in una partecipazione maggiore rispetto a quella di quest’anno, e Archivio Anno Uno, che diventerà un progetto open source aperto al pubblico sulla creazione di un archivio collettivo di fonti e ispirazioni per il lavoro. VAN è un antidoto potente alla solitudine, è bello ritrovarsi in un’orizzontalità vera, noi facciamo un continuo esercizio di sospensione delle gerarchie, che tra artisti esistono sempre. Pur essendo molto diversi gli uni dagli altri ci ritroviamo in un terreno comune: se non lo avessimo inventato noi non esisterebbe».

Paola Granato

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