24 aprile 2019

TEATRO

 
Ifigenia in Tauride e Orestea: con due spettacoli Lenz Fondazione prosegue la visionaria indagine scenica sulla saga degli Atridi
di Giuseppe Distefano

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È una nuova epifania del sentimento tragico, un nuovo atto segnico di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, un loro ulteriore affondo stratificato e poetico, di pulsante rifrazione fisica e visiva, che ha trovato forma e concetto nella condizione biografica della performer Monica Barone, un corpo danzante e sonoro di intima restituzione; e tratto ispirazione dalla materia estetica di un’opera di Beyus – “Titus-Iphigenie” -, dalla musica di Gluck – “Iphigénie en Tauride” -, e dal dramma di Goethe “Iphigenie auf Tauris” -: una quadruplice tessitura per questa “Iphigenia in Tauride. Io sono muta” di Lenz Fondazione. Muta perché la protagonista porta il segno di una trasformazione facciale e alla gola comunicando con la respirazione di una cannula. La userà visibilmente amplificandone il fiato vicino ad un microfono nella potente sequenza in cui davanti ad una teca d’acqua immergerà le mani, le laverà, spargerà le gocce in un rituale di purificazione. Siamo nel tema del sacrificio, parola che significa letteralmente “rendere sacro”. E lo è, nella tragedia di Euripide, il gesto di Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone ritrovandosi a morire come una schiava, trascinata di fronte all’esercito greco che aspetta di poter salpare. Ma la fanciulla che tutti credevano sacrificata agli dei viene ritrovata dopo la guerra di Troia nella barbara Tauride nei panni di sanguinaria custode del simulacro di Artemide, a ridare speranza a uno sfiduciato Oreste, liberato dalla maledizione delle Erinni per il parricidio proprio grazie a questa salvifica impresa. 
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Lenz Fondazione, Iphigenia in Tauride – foto di Maria Federica Maestri 

Con un’accensione di sguardo vigorosa, Maestri e Pititto tracciano in una sola interprete una geografia di passioni assolute, non determinabili in un tempo storico, restituendo a una danza essenziale di gesti la sua dimensione rituale. Nel pulsante e spoglio spazio geometrico, che è area sacrificale e rifugio, si stagliano oggetti e simboli che riconducono alla vicenda dell’eroina modernissima, effigie solitaria e grandiosa di un mondo di violente sopraffazioni maschili: le corna di un cervo fissate su due stativi, due ruderi di colonne classiche sospese, e sul proscenio la teca trasparente del lavacro che funge da altare. Sullo sfondo domina un grande schermo – dietro e davanti al quale Ifigenia si aggirerà danzando l’approdo e la fuga – che riproduce in video i luoghi dell’esilio: prima quel Mar Nero che bagna le rive di Tauride, l’attuale Crimea, calmo e tempestoso; poi il bosco sacro avvolto nella nebbia, di tronchi e alberi. Ifigenia, giunta con una valigia in mano, aperta per mutare d’abito, raggomitolata a terra avvolta in un grigio mantello, smuove le sue articolazioni sulla musica e il canto dell’opera di Gluck che lei stessa avvia – più volte dopo interruzioni e stacchi di silenzio – disponendo un disco di vinile su un vecchio giradischi. E sono le parole dell’opera a dare consistenza ai suoi movimenti smarriti, paurosi, tremanti di presagio o di gioia, sognanti, imploranti gli dei, evocanti la presenza del fratello Oreste, manovrando l’asta meccanica con le corna appese, calando a terra i ruderi del tempio e disponendosi accanto ad essi macchiati appena di sangue, fino a diventare guerriera conquistando la sua libertà. 
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Lenz Fondazione, Orestea #1 Nidi – foto di Maria Federica Maestri
In otto quadri tragici si svolge il secondo pezzo dell’unica serata, “Orestea #1 Nidi”, prima parte di un progetto triennale sull’Orestea, che vede l’inizio della saga degli Atridi raggrumarsi in quattro personaggi – Clitennestra, Agamennone, Cassandra, e Ifigenia anche Coro – per tre interpreti femminili che incarnano assassini e vittime, orrori, passioni e paure: sono le presenze storiche di Lenz, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, e l’attrice sensibile Valentina Barbarini sorprendente Cassandra. In una dimensione più narrativa, condensata nei testi poetici di Francesco Pititto, la tragedia barbarica s’innesta «sull’estetica della patologia psichica dei personaggi». Siamo in un luogo di detenzione e di coercizione: una stanza di alte pareti di cemento con due porte laterali e un varco centrale con, all’interno, un letto che funge da trono sotto una di capanna di rami – un’installazione ispirata all’opera di Mario Merz – che ne fa anche un nido dove Clitennestra e Cassandra urlanti coveranno le loro uova, l’una partorendo l’altra. Nell’aprirsi e chiudersi di porte, nel comparire e scomparire avvolti in scure tuniche o in bianchi sudari, rasenti i muri o al centro della scena, i personaggi, nell’alternarsi del loro ruolo, macchiano, ossessivamente, di segni neri le pareti e a terra, poi sul volto, come a voler lasciare tracce di presenze, di futuri lutti, di parole sottaciute, di profezie che altri decifreranno; portano secchi prima d’acqua per lavare ciò che è sordido, poi pieni di fango da dove estrarre numerosi giocattoli, segni, per Ifigenia, di un’infanzia perduta; compiranno violenze e stupri – impressionante la sequenza in cui la Soncini impersonando Agamennone simula un atto sessuale su Clitennestra mostrando un fallo tenuto fra le sue gambe –. 
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Lenz Fondazione, Orestea #1 Nidi – foto di Maria Federica Maestri
Sempre sul continuo e grave tessuto sonoro del musicista e compositore elettronico tedesco Lillevan, bestialità e umanità si scontreranno, pietà e giogo divergeranno, profezie e maledizioni si annienteranno. Cassandra diventerà prima uccello, poi lupo camminando a quattro zampe; Clitennestra invece cigno, simulando la morte dell’altra. Sulle note ciaicovskiane della “Morte del cigno”, lei, corpo tellurico, squassato, impazzito, danzerà forsennatamente in una perturbante sequenza coreografica a così alto tasso fisico ed emotivo da rimanere impressa nella nostra memoria di spettatore.  
Giuseppe Distefano

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