16 maggio 2019

Sulle tracce dell’Anthropocene. Edward Burtynsky ci parla della mostra al MAST di Bologna

 

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Con la mostra “Anthropocene”, visitabile alla Fondazione MAST di Bologna dal 16 maggio al 22 settembre 2019, si presenta in anteprima europea The Anthropocene Project, con trentacinque fotografie del fotografo Edward Burtynsky, filmati dei registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, installazioni in realtà aumentata e Anthropocene: The Human Epoch, il premiato docufilm sul progetto, co-diretto dai tre artisti. 
Il titolo si riferisce alla definizione coniata dal gruppo internazionale di scienziati dell’Anthropocene Working Group per «L’attuale era geologica nella quale l’uomo è la causa primaria di cambiamenti permanenti del pianeta». La mostra è curata da Urs Stahel, curatore della PhotoGallery e della collezione MAST, Sophie Hackett, curatrice della fotografia dell’Art Gallery of Ontario di Toronto, e da Andrea Kunard, curatrice del Canadian Photography Institute della National Gallery of Canada. «Il progetto Anthropocene – ha spiegato la Fondazione MAST alla stampa – è un’esplorazione multimediale che documenta l’indelebile impronta umana sulla terra: dalle barriere frangiflutti edificate sul 60% delle coste cinesi alle ciclopiche macchine costruite in Germania, dalle psichedeliche miniere di potassio nei monti Urali in Russia alla devastazione della Grande barriera corallina australiana, dalle surreali vasche di evaporazione del litio nel Deserto di Atacama alle cave di marmo di Carrara e ad una delle più grandi discariche del mondo a Dandora, in Kenya. Il progetto ha debuttato in Canada a settembre 2018 con il documentario Anthropocene: The Human Epoch, proiettato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival e con la mostra allestita in contemporanea all’Art Gallery of Ontario di Toronto e alla National Gallery of Canada di Ottawa – organizzata in partnership con la Fondazione MAST». 
Edward Burtinsky ci ha raccontato la sua ricerca e la mostra. 
Come è nata la mostra? Come ha scelto le trentacinque fotografie per la mostra al MAST? 
«La mostra è nata da una collaborazione con Jennifer Baichwal and Nicholas de Pencier in un periodo lungo oltre tredici anni, durante i quali il primo film “Manufactured Landscapes” ha portato a “Watermark”, che a sua volta ha condotto a “The Anthropocene Project”. La mostra al MAST è un distillato di lavori che sono stati selezionati direttamente dal volume “Anthropocene” e da una collaborazione con i curatori – Sophie Hackett dell’Art Gallery of Ontario, Andrea Kunard of the National Gallery of Canada e Urs Stahel del MAST – che hanno unito tutto». 
Come avviene il processo di realizzazione delle sue fotografie? Come individua luoghi e soggetti? 
«Nel caso di “The Anthropocene Project” abbiamo cercato di aderire nel modo più fedele possibile alle categorie in merito alle quali gli scienziati dell’”Anthropocene Working Group” stanno cercando di raccogliere prove, tra cui tecnofossili, “anthroturbation”, terraforming, estinzione, etc. Da lì abbiamo cercato di utilizzare nostre ricerche per poi individuare numerosi esempi di queste circostanze sulla Terra. Poi ci siamo accordati su un luogo da visitare (ad esempio Norilsk) e da qui abbiamo proseguito con il tentativo di ottenere l’accesso alle zone e realizzare il servizio fotografico. Così, a differenza di altri miei progetti, “Anthropocene” mette al centro la necessità di collaborare. Non eravamo sempre insieme negli stessi posti, ci sono state molte occasioni in cui ci siamo mossi separatamente, ma per noi aveva senso lavorare come squadra». 
Può riassumere, in estrema sintesi, come si è sviluppato il suo interesse per le questioni ambientali? Com’è nata la sua ricerca su queste tematiche, attraverso la fotografia? 
«Risale all’inizio degli anni Ottanta, quando ho scoperto che a causa del trend della crescita della popolazione umana e per il fatto che stiamo vivendo con una limitata quantità di risorse, raggiungeremo un punto di stallo o un punto critico sulla Terra. È sempre stato ovvio che l’abbondanza si sarebbe potuta trasformare rapidamente in scarsità. Comprendendo questo, come fotografo, ho cercato gli esempi più evidenti di questi interventi umani che estraggono su vasta scala. Questo poi è divenuto un progetto di vita: tutto ruotava attorno alla ricerca di questi esempi dell’impatto umano, alla ricerca degli esempi più significativi di queste situazioni nel mondo, e ai tentativi di ottenere l’accesso a questi luoghi». 
Quale ritiene sia lo spirito giusto per avvicinarsi al suo lavoro? 
«Penso che innanzitutto il lavoro evochi un senso di stupore in merito a che cosa siano questi luoghi e la dimensione di ciò che sta accadendo. C’è, inoltre, lo spirito dell’indagine, della ricerca, il desiderio di imparare di più su questi luoghi e sul nostro ruolo nel causare tutto ciò e come questi processi si ripercuotono nelle nostre vite». 
Ritiene che l’arte, la fotografia nel suo caso, possa contribuire a cambiare il mondo? 
«Penso che fotografia e film possano aiutare ad aumentare la consapevolezza in merito alle questioni che dobbiamo affrontare, portando questi mondi più vicini a noi e più vicini ad una maggiore comprensione. L’arte non ha necessariamente la capacità di influire sulle politiche legislative, ma certamente può lavorare per contribuire al dibattito. E questo in qualche modo può portare a grandi cambiamenti». (Silvia Conta
In alto: Edward Burtynsky with Jim Panou, Vancouver Island, British Columbia. Ph. TJ Watt, courtesy of Anthropocene Films Inc. © 2018

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