24 maggio 2019

BIENNALE/ L’OPINIONE

 
UN INTERROGATIVO CHE NON C’È
Sulla Biennale, e naturalmente sul Padiglione Italia (scusandomi per il ritardo)

di

Ammetto di avere sempre, e da sempre, una qualche difficoltà ad esprimere un giudizio in modo piuttosto veloce e risoluto sulla Biennale di Venezia. Per la verità è una impasse che patisco di fronte a tutti gli eventi ad essa simili, ivi comprese le fiere. Ma non vi allarmate, il riferimento a queste ultime non vuole essere un’associazione blasfema o anche più banalmente polemica. Direi che è invece il risultato di una constatazione, forse non meno banale, dettata da quell’accumulazione di opere, persone, personaggi, che le caratterizzano in modo analogo come fossero lo stesso genere di esplosione multicolore e multisonora. In altre parole l’associazione segue semplicemente un modesto senso visivo (e auditivo) dal quale procede la conseguente osservazione fenomenologica, determinata appunto dall’evidente sovrapponibilità dei fenomeni. 
Il diluvio di immagini e commenti postati sui social, rende poi quell’esplosione tanto irradiante da rendere ancora più difficoltosa una benché minima capacità di orientamento istantanea. Almeno a me. 
Quindi non nascondo tutta la mia ammirazione per chi gira per la Biennale, affaticato ma sorridente, mostrando dopo mezza giornata di avere idee chiarissime sulla qualità, o meno, della mostra del curatore e sul padiglione nazionale più, o meno, interessante. Ammirazione, e lo dico senza alcuna ironia, che diventa vera e propria venerazione per quelli che hanno già scritto commenti sui quotidiani lo stesso giorno dell’apertura della vernice, o per quelli che solo dopo un paio di giorni raccontano per filo e per segno le loro sensazioni, citando opere e commentando le idee sulle quali ha lavorato il curatore e se hanno, o meno, trovato efficace applicazione nella mostra. Lo so, queste parole appaiono come la classica “excusatio non petita, accusatio manifesta”, e in effetti a dirla con sincerità sono proprio questo, nel senso che mi scuso e mi accuso di un’incapacità, che naturalmente cercherò di correggere e di farmi perdonare sin da subito, spero.
Cominciamo dunque con il dire che la Biennale di Ralph Rugoff è una mostra moderata. Lo è per il ridotto numero di artisti rispetto alle precedenti, e per aver lasciato maggiore spazio espressivo agli stessi con opere sia nel Padiglione centrale dei Giardini che nell’Arsenale. Ma lo è soprattutto per lo sguardo che il curatore ha indirizzato ad un mondo, e ad un sistema dell’arte, tutt’altro che moderato e moderabile, scegliendo artisti che da vari punti di vista, e con diversi linguaggi, dessero conto del senso del loro fare arte nel divenire in atto. Mi pare che lo stesso tipo di sguardo il curatore auspichi sia adottato, nei limiti del possibile, da parte dei visitatori della mostra.
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Né altra Né questa: La sfida al Labirinto Padiglione Italia alla Biennale Arte 2019 Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti Courtesy DGAAP-MiBAC
Ralph Rugoff è un americano di New York, da qualche anno attivo in Europa – dirige a Londra dal 2016 la Hayward Gallery, e ha già all’attivo la cura di una biennale, quella di Lione nel 2015. Un curatore esperto e sufficientemente disincantato, forse anche a causa della sua età, essendo nato nel 1957, e non privo di una certa ironia, almeno leggendo alcune sue interviste. Non lo conosco personalmente, ma ho come la sensazione che sia una persona simpatica, e in definitiva distante dai soliti cliché dei curatori afferenti all’artocrazia globale. Ma magari mi sbaglio. In ogni caso la questione della moderazione merita un chiarimento, nel senso che non ritengo si tratti di una vera e propria temperanza, piuttosto di un viatico metodologico al discernimento, ma che non esclude, o perlomeno non mette al riparo dalla scelta e dall’esposizione di opere che invece appaiono per varie ragioni eccessi in negativo, che sembrerebbero dare ragione ai più strenui, e a volte ottusi, sostenitori della pochezza dell’arte attuale. Diciamo che l’emblema di questa tipologia potrebbe essere la mucca di Nabuqi, anche se il girotondo del bovino potrebbe invece essere interpretato solo come una concessione eccessiva al gioco, che il curatore ritiene essere la dimostrazione della nostra umanità. Tutto è possibile, anche se non tutto è plausibile. Comunque in un certo qual modo la moderazione è già ravvisabile nel titolo, che iniziando con quel modale “may”, allude appunto ad una possibilità e parrebbe presagire un interrogativo che alla fine però non c’è. Ma proprio come questa strana sospensione che dichiara il titolo – fra l’altro, com’è ormai noto, riconducibile ad una falsa origine proverbiale cinese, la moderazione mi pare si possa ricondurre ad un procedere dubitativo in un tempo e in una realtà tutt’altro che racchiudibili in una formula, e che sono resi incerti dalla doppiezza analogicodigitale nella quale siamo. E infatti la mostra oscilla, tanto per fare qualche esempio, tra opere come il muro di Teresa Margolles e le immagini in bassa risoluzione accompagnate dalla narrazione di una voce sintetica su Leonardo da Vinci e Leonardo ex Finmeccanica di Hito Steyerl nei Giardini; mentre all’Arsenale si passa dalle immagini fotografiche di Soham Gupta al video Data-Verse di Ryoji Ikeda. Il tutto è proposto con una fluidità che è più percepibile nell’Arsenale, anche grazie ad un allestimento in tal senso più efficace (perdonate la notazione puramente curatoriale), e che intende chiaramente rievocare la nostra quotidiana fluidità ambientale e mentale. Alcune opere si registrano perfettamente su questo dualismo analogicodigitale, come l’installazione di Ed Atkins, Old Food, o anche quella video di Neïl Beloufa, entrambe all’Arsenale, ma per la maggior parte si posizionano e identificano la singola natura dei due poli. Passare dai quadri di Michael Armitage a This is the Future di Hito Steyerl, mi pare descriva bene l’ampiezza dell’oscillazione. Ma Rugoff nel tenerli insieme, ritengo che intenda non solo testimoniare della loro contiguità, ma restituire appunto la concretezza e il senso della singolare congiuntura che viviamo. Ma appunto lo fa senza esagerare, con moderazione, non spingendo sull’acceleratore delle tecnologie più estreme, nessuna realtà virtuale o mixed ad esempio, né concessioni ad un passatismo formale che senza dubbio non appartiene più all’arte attuale. E anche il generale effetto distopico, che è anche sociale e politico, e che si avverte come immanente, è come pacificato in un presente che però dimostra di avere una paradossale, quanto inquietante, memoria del futuro. 
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Michael Armitage Various works, 2019 Oil on Lubugo bark 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Photo by: Andrea Avezzù

Non penso ci sia al mondo una mostra più difficile da realizzare della Biennale di Venezia, e questo non tanto per l’aspettativa, che ovviamente è molto alta, quanto per la discontinuità espositiva determinata da spazi lontani e soprattutto molto diversi, e nondimeno per la compresenza, con la mostra principale, di quelle dei padiglioni nazionali che, allineate o meno alla tematica del curatore, creano sovrapposizioni e interazioni a volte armoniche e a volte dissonanti, con il non sottovalutabile rischio che tutto sia ricondotto allo stesso piano percettivo e di senso. A proposito delle mostre dei padiglioni, mi accodo alle innumerevoli lodi a quello della Lituania, e a quello del Ghana (in particolare il video di John Akomfrah) a mio parere quello da menzionare al posto del Belgio, al quale aggiungo quello della Francia con Laure Prouvost e quello dell’Inghilterra con Cathy Wilkes. Qualcuno di quelli più fuori circuito me lo sono perso e quindi mi fermo qui. 
Arriviamo così a quello dell’Italia, del quale immagino siate curiosi di conoscere la mia opinione, se non altro per il silenzio che sin qui l’ha avvolto, come ha opportunamente segnalato proprio su queste pagine Matteo Bergamini. Certo non è un buon segnale questo del silenzio, e forse non era capitato nemmeno con i precedenti peggiori. Tanto più che commenti sussurrati se ne sono sentiti parecchi nei giorni della vernice, e non proprio positivi. Credo che il silenzio ufficiale sia la conseguenza di una delusione inattesa. I presupposti infatti sembravano positivi, o perlomeno non lasciavano presagire l’inciampo. Un curatore, Milovan Farronato, residente a Londra e quindi, in linea teorica, in grado di dribblare i classici provincialismi italiani, ma anche la qualità degli artisti scelti: da Enrico David, addirittura nominated al Turner Prize del 2009, affianco a Chiara Fumai, un’interessante artista purtroppo scomparsa a 39 anni solo due anni fa, e infine Liliana Moro, una tra le migliori protagoniste dell’arte italiana degli ultimi venticinque, trent’anni. Cos’è dunque che non ha funzionato? Certo la Biennale è una mostra molto difficile, ma anche il Padiglione Italia non è un gioco, almeno per l’ansia da prestazione che evidentemente induce e che può causare davvero brutti scherzi. Quello che non ha funzionato è stato infatti proprio il desiderio di strafare dal punto di vista curatoriale, costruendo una cornice labirintica soffocante per le opere e il pubblico, inutile e tanto formale da divenire un elemento estetico da ascrivere alla peggiore retorica nazionalpopolare. 
Ma partiamo dai concetti ai quali si è ispirato Farronato. 
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Ed Atkins Old Food, 2017-19 Video loops with sounds, racksof costumes from Teatro Regio Torino, Texts by Contemporary Art Writing Daily 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia
La sfida al labirinto, il sottotitolo che nel caso appare più propriamente come il titolo del padiglione, fa riferimento al saggio di Italo Calvino del 1962 pubblicato sulla rivista “Il Menabò”. È un saggio importante, di uno scrittore che com’è noto ha vissuto diverse fasi, vere e proprie mutazioni letterarie, e che in quelle pagine ragionava sulla possibilità di una letteratura aperta alle diversità linguistiche e narrative per meglio entrare in sintonia con la complessità del mondo di quegli anni, che si presentava appunto come un groviglio labirintico. Al pari di Jorge Luis Borges, Calvino subì dunque il fascino della metafora del labirinto, ma si dimostrò però convinto che una riproduzione naturalistica dello stesso, dal punto di vista letterario, fosse da evitare a tutti i costi. Alla letteratura spettava, secondo lui, invece il compito di trovare una via d’uscita dalla dimensione del groviglio, magari per poi finire subito dopo dentro un altro labirinto, ma senza mai arrendersi ad esso, o ad essi. Forse in tal senso la sua opera più riuscita sono le Città invisibili del 1972 e dal punto di vista teorico le Lezioni americane del 1985, pubblicate postume. 
Comunque sia il Padiglione Italia cade proprio nel tranello della rappresentazione naturalistica del labirinto, cosa abbastanza facile che accada se alle arti visive viene dato un ruolo meramente rappresentativo, divenendo in tal modo un limite concettuale prima che una gabbia cieca per le opere.
Mentre guardavo la mostra italiana, mi domandavo se la scelta di fare riferimento a Italo Calvino avesse tenuto in debito conto le motivazioni per le quali nei nostri anni, in verità almeno dall’inizio del nostro millennio, la riflessione letteraria italiana, e non solo italiana, avesse scelto come riferimento Pier Paolo Pasolini piuttosto che appunto Calvino, chiaramente come conseguenza di una inequivocabile esigenza di realtà, compresa la possibilità di agire con e in essa. Carla Benedetti lo scrisse già nel 1998 con esemplare chiarezza nel suo Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura: “per l’ultimo Calvino scrivere è descrivere il mondo, per Pasolini scrivere è agire nel mondo”. 
È la stessa cosa che è successa nelle arti visive, ma forse qualcuno non deve essersene ancora accorto. Almeno qui in Italia.
Raffaele Gavarro

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