27 maggio 2019

La Biennale di Oslo. 2019-2024

 

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Si è aperta questo weekend nella capitale scandinava la prima edizione della Biennale di Oslo. Alla ricerca di un nuovo modello per un format – quello delle biennali di arte contemporanea in crescita esponenziale – i curatori Eva Gonzales-Sancho Bodero e Per Gunnar Eeg-Tverbakk, hanno lavorato sulle premesse della loro ricerca condotta sugli spazi urbani con l’agenzia Oslo Pilot con la quale già aveva prodotto nel 2015 la splendida installazione di House of Commons di Marianne Heske. La ricostruzione di un edificio rurale davanti al parlamento norvegese entrambi costruiti 150 anni prima. 500mila persone avevano visitato questo lavoro site specific il primo nel quale la Norvegia piena di risorse petrolifere si confrontava con il suo passato.
La questione di come un lavoro d’arte pubblica funzioni , di come si confronti con il suo pubblico e si confronti con lo spazio istituzionale è centrale nel programma di questa nuovissima biennale che si dipanerà su di un arco temporale di 5 anni e di cui i lavori oggi visibili/invisibili non sono che un primo set. Con ritmi e tempi diversi le opere presentate seguono una psicogeografia curatoriale che scommette su un terreno di fruizione pubblica e sulla performance come media privilegiato. È praticamente abolito il white cube, se si eccettua la splendida installazione di Gaylen Gerber in quello che fu lo studio di Edward Munch a Ekely, a cui però fa immediatamente eco un lavoro nello spazio pubblico.
Nel quartier generale della biennale, Myntgata, sono ospitati anche gli studi di alcuni degli artisti coinvolti nel progetto e che resteranno visitabili nel weekend inaugurale.
È qui, in un sito militare dismesso, che l’artista americano ha evidenziato con la stessa patina grigia  utilizzata per gli oggetti esposti nello studio di Munch un edificio dall’aria misteriosa, al centro di tante speculazioni sulla sua ex destinazione e che fu probabilmente la sede dell’intelligence norvegese durante
l’occupazione tedesca. La Biennale è permeata da un ossessione situazionista e dal pensiero di Debord, didascalicamente riecheggia nella mappa per perdersi nella città di Oslo di Benjamin Bardinet appositamente creata per questa edizione. Il disegno sotteso è quello di far scoprire opere e narrazioni al pubblico con un’epifania diretta, regolata da un’attitudine alla deriva tra materiali carichi di senso che riattivano spazi e tempi discronici.
Rose Hammer un lavoro collettivo generato dalle pratiche politico-relazionali di Dora Garcia riattiva in un musical amatoriale deliberatamente Brechtiano la storia della
della Barrack 12 del campo di prigionia di Grini dove i prigionieri resistenti hanno cominciato ad intessere le relazioni politiche che sono alla base della Norvegia del secondo dopoguerra. Come la biblioteca di libri viventi imparati a memoria di Mette Edvardsen che con il suo gruppo di lavoro di  persone retribuite realizza lo spazio fisico contenuto nella lucida «profezia» di Fahreneit 451 di Ray Bradbury, quasi una  splendida trascrizione di ogni volume, qui a Oslo che apre a spazi di scambio che ricordano il cinema di Truffaut.
È una Biennale che si glissa negli spazi pubblici su un terreno decisamente sperimentale. Carole Douillard con il suo The Viewers scandaglia la città in movimento in punti precisi, il tetto dell’iconica Opera House, Y block o la splendida Oslo modernista in via di demolizione. Lo fa con un gruppo di performes intenti a contemplare la malinconia di recente di luoghi spazzati via o creati dalla nuova ricchezza. Ma tutta la Biennale punteggia con il suo sguardo critico  il nuovo corso urbanistico accelerato della città. È una critica sottile nel quale diviene palpabile il nuovo retrogusto futuribile di una Oslo che si avvia a diventare la Abu Dhabi scandinava. Ciò che si lascia alle spalle  sono spazi carichi di storia. Il futuro prossimo è la scommessa sulla cultura il nuovo Munch Museum ne segna già lo skyline, così come la nuovissima Biblioteca pubblica o il nuovo Museo nazionale, che apriranno l’anno prossimo. È negli spazi dimessi creati da questi traslochi che nascerà forse una nuova Eldorado culturale cittadina. Un’indagine critica che da tempo si insinua nel lavoro di Marianne Heier. Un primo capitolo è stato presentato recentemente all’Accademia di Brera. Con la performance And their spirits live on l’artista si riappropria degli spazi del vecchio museo di arte contemporanea e ne svela l’utilizzo originario di una vecchia banca di venuta museo.
Su queste ambiguità gioca il padiglione surreale del Collettivo Osv (Jan Freuchen/Jonas Hogli Major/Sigurd Tenningen) che si riappropriano delle sculture in deposito. 
Nelle collezioni cittadine e le reinstallano negli svincoli stradali periferici creando stani corto circuiti tra copie di sculture medicee, pop art e grattacieli in via di demolizione.
Fittissimo di eventi a venire nel futuro prossimo la Biennale di Oslo è un osservatorio carico di utopia ed un sano deterrente all’occupazione mercantile degli spazi di ricerca. La sola preoccupazione in una Biennale che vede con sospetto il genio artistico, se non come prodotto di un a intelligenza collettiva è che il suoi contorni fisici e di territorio non vengano compresi ed assimilati. Lisa Tan l’artista americana che vive a Stoccolma ha probabilmente realizzato uno dei gesti più forti devolvendo il suo budget alla ristrutturazione delle toilette pubbliche di Myntgata, un modo per sottolineare la differenza di pratiche artistiche, in un sistema di fortune e mercato che oramai occupa ogni spazio di ricerca  ed installa le sue « fontane » 24 carati al Guggenheim. (Ivo Bonacorsi)

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