03 luglio 2019

Intervista a Gilbert & George. Le sculture viventi ci raccontano il loro esordio nell’arte

 

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La mostra di Gilbert & George alla Fondazione Louis Vuitton di Parigi, appena aperta e visitabile fino al 26 agosto, è un piccolo gioiello estivo. Un lavoro di scavo nel passato delle “sculture viventi” che è, allo stesso tempo, un vero reperto e una raccolta di materiale documentario. 
There where two young men (1971), esposto per la prima volta alla Galleria Sperone di Torino, faceva parte di un corpus di lavori creati tra il 1970 ed il 1974. È un’opera monumentale in 6 parti, realizzata a carboncino su carta, difficile da collocare senza un immaginifico salto all’indietro nel lavoro dei due artisti inglesi, nel loro momento liminare, con l’incontro alla St. Martin’s School e la creazione di un ambizioso programma: “Beauty and Art for All”. 
Questo lavoro degli anni Settanta è la riconferma di una coerenza che, ancora oggi, con media differenti, richiede lo stesso controllo di formati e lettering e una grande attenzione alle loro narrative implicite e profondamente radicate nella cultura popolare. Ne abbiamo parlato con Gilbert & George, durante l’opening.
Incredibile come questo lavoro d’esordio abbia la stessa grazia, freschezza e humor delle opere recenti, apparentemente più elaborate… 
«È stata anche per noi una sorpresa, non lo vedevamo da allora e lo credevamo perduto quando è improvvisamente riapparso. Entrambi stentavamo a crederci». 
Io lo conoscevo dai cataloghi, come credo la maggior parte degli addetti ai lavori, ma devo ammettere che è abbastanza inquietante, come per un ritrovamento archeologico. 
«Effettivamente perfino la cassa in cui è conservato, che di fatto è una valigia di cartone, ha conservato la patina del tempo. L’avevamo persino lucidata con un prodotto per le calzature perché sembrasse di cuoio. La stessa cosa succede per i testi delle “limericks” che accompagnano il nostro lavoro. Riletti oggi, testimoniano della difficoltà dei nostri inizi: “there were two young man covered in blood…they battle along singing a song…”». 
È stata una magnifica avventura e i vostri testi e le eleganti limericks qui raccolte sono quelle delle vostre sculture postali fatte a mano. Erano personalmente indirizzate alle persone che potevano apprezzare il vostro programma “towards progress and understanding in art”? 
«Certo, fatte a mano ed effettivamente radicate in una forma più tradizionale. All’epoca, nessuno frequentava la printing room del St. Martin’s School of Art, tutti troppo impegnati, con lavori concettuali più oscuri, mentre noi interessava recuperare una matrice diversa, forse artisticamente più ridondante». 
Credo abbia pagato perché sono molto vicini al lavoro delle giovani generazioni, impegnate a definire una visione morale attraverso un lavoro personale e identitario. 
«Per noi è come rivedere un lavoro archetipico ma nello stesso tempo è chiaro che volessimo creare qualcosa di prezioso e che sarebbe stato conservato». 
Direi proprio che ci siate riusciti. Questo preziose sculture, in tutta la loro bellezza e malinconica tattilità, sembrano suggerire una atemporalità che è quella della scultura classica. 
«Lavoro perfetto, quindi… per due sculture viventi». (Ivo Bonacorsi)

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