10 luglio 2019

MUSICA

 
Tre saggi esemplari di teatro musicale del Novecento. Tra Milano e Firenze
di Luigi Abbate

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Nell’arco di un paio di mesi, fra Milano e Firenze, s’è avuta l’occasione di assistere a tre saggi esemplari di teatro musicale tedesco del Novecento. Esperienza preziosa, offerta anche al pubblico internazionale che frequenta le stagioni d’opera del Teatro alla Scala come del Maggio Musicale Fiorentino. Proprio lo storico festival toscano inaugurava con Lear del compositore berlinese Aribert Reimann (1936). Opera non nuovissima – la prima s’ebbe alla Bayerische Staatsoper di Monaco nel 1978 con il grande baritono Dietrich Fischer-Dieskau nel ruolo del titolo – ma che conferma la familiarità del Maggio per la produzione moderna e contemporanea. Scelta, quella del Lear, fortemente voluta dal suo direttore musicale, Fabio Luisi, che era sul podio e che l’aveva già diretta in questo allestimento dell’Opéra di Parigi, firmato dall’ex enfant terrible della regia d’opera, il catalano Calixto Bieito. Regia, corredo scenico e video han concorso a definire con taglio netto le tinte scure della tragedia scespiriana, evitando di scivolare in certa truculenza che testo e contesto inviterebbero a fare. E con ciò offrendo un gran servigio alla complessa partitura di Reimann, autore ben noto nei paesi di lingua tedesca, impavido nell’affrontare soggettoni (ricordo un Castello da Kafka visto a Vienna), come questo King Lear, che aveva impegnato senza esito un certo Verdi. Reimann, forte di grande esperienza compositiva (seriale la tecnica usata) non meno che pratica del raffinato Klavierbegleiter (parola tedesca che non comprende soltanto la funzione di accompagnatore, ma musicista che partecipa con i cantanti alla resa intima del rapporto fra testo e musica), non soffoca mai le voci sotto un tessuto orchestrale poderoso per densità e, specie nella prima parte, devastazione tellurica evocata dai gesti perentori delle percussioni, laddove, nel corso della seconda, viene a liberarsi un timbro, un Klang quasi utopico, esaltato dalla maestria di Fabio Luisi nel rendere i minimi dettagli. Scrittura vocale di alta fattura, si diceva, che ha reso apprezzabili i ruoli primari del Lear di Bo Skovhus e delle figlie Cordelia-Agneta Eichenholz e Regan-Erika Sunnengårdh. Tre recite (2, 5 e 9 maggio) che han garantito un confortante successo di pubblico. 
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Lear © Michele Monasta
Anche alla Scala due titoli in lingua tedesca, ma storicamente precedenti il Lear. Die tote Stadt, dal 28 maggio al 17 giugno. Erich Wolfgang Korngold, il suo precocissimo compositore viennese, la vede nascere nel 1920 ad Amburgo. Istinto teatrale, invenzione debordante, sapienza strumentale e godibilità sono caratteristiche che si riconoscono in quest’opera e nella musica di Korngold che, come altri musicisti della Mitteleuropa ebrei costretti a fuggire oltreoceano, ci ha lasciato un’immagine “doppia” di sè: autore “classico” di opere e musica strumentale in Europa, “popolare” di colonne sonore a Hollywood. La città morta del titolo è Bruges, teatro della vicenda che vede Paul, bigotto vedovo sconsolato, immaginarsi la reincarnazione della moglie Marie in una ballerina, Marietta: un sogno che s’aggiunge all’incubo della prigionia d’un ricordo dal quale Paul alla fine riesce a liberarsi. Alan Gilbert governava una partitura che compensa magistralmente la complessità psicologica del plot con felice vena melo-armonica e colori orchestrali lussureggianti. Asmik Grigorian è stata una Marietta seducente sulla scena non meno che impeccabile in voce; alla sua altezza il Paul di Klaus Florian Vogt e il Frank di Erich Werba. Il regista Graham Vick ha dipinto una “città morta” un po’ anonima, equidistante fra la storica Bruges e la sua proiezione inquietante. Successo di pubblico alla replica del 10 giugno.  
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Die tote Stadt, credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
Sempre in Scala Ariadne auf Naxos, otto recite spalmate fra il 23 aprile e il 22 giugno, s’è incrociata proprio a Die tote Stadt. E si rinnovava in altro contesto il rapporto fra realtà e finzione scenica. Se Bruges era la città morta, la Vienna di Richard Strauss e di Hoffmansthal era la capitale di un impero, quello asburgico, ormai al tramonto. Rappresentata nella forma definitiva nell’ottobre del 1916, in piena guerra, l’opera è il sublime canto del cigno di un’epopea. A fagiuolo quindi l’apertura di scena con la recitazione del sovrintendente scaligero, un Alexander Pereira ormai a fine mandato, nel ruolo del Maggiordomo, che spiega in un tedesco molto wienerisch i capricci del padrone che vuol mischiare in un sol colpo due compagnie come si mischia vino e acqua: una che recita il mito, l’altra la commedia delle maschere. Franz Welser Möst dirigeva da grande esperto, riuscendo così a non far rimpiangere l’indimenticabile Wolfgang Sawallisch di un’edizione scaligera del lontano 1984. E se di quella produzione non si dimentica neanche la Zerbinetta di Editha Gruberova, qui non sfigurava neppure Daniela Fally vista e udita il 19 giugno. La regia di Frederick Wake-Walker, piacevole e ben condotta nel Prologo, si perdeva alla fine nella banalità da stelline infantili e pseudonatalizie dei video designer. 
Ciò detto, e per chiudere, assistere in breve tempo a queste tre produzioni è stato un po’ come partecipare all’incontro fra tre eccellenti declinazioni dell’Unzeitgemäßige, l’”inattuale” di niciana memoria.
Luigi Abbate

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