07 febbraio 2003

E l’arte andò sullo scaffale

 
Tazze di Mondrian e sciarpe di Monet. Ombrelli con suggestioni magrittiane e borse invase dagli immancabili girasoli di Van Gogh. Negozi e bookshop museali (e non solo) sono ormai invasi di questi gadget. Paccottiglia? Mero strumento di commercializzazione dell'arte? O strumento alternativo di divulgazione? Breve viaggio nell'universo del merchandising artistico...

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Potete sorseggiare un bicchiere di latte caldo in una tazza con impresse le linee astratte di Mondrian mentre state comodamente seduti su un puf dai colori sgargianti tipici degli omini di Keith Haring; potete ripararvi dalla pioggia con l’ombrello decorato con gli uomini con la bombetta di “magrittiana” memoria e indossare una sciarpa con le ninfee di Monet o una borsa con i girasoli di Van Gogh. Questo e altro nel regno del merchandising artistico, attività che ha reso la riproduzione delle opere d’arte un vero e proprio business.
In Italia, così come in altri paesi, sorgono negozi e catene specializzate nella vendita di questo tipo di articoli mentre per i musei il merchandising è diventata una vera e propria fonte di profitto.
L’esigenza di portare con sé un ricordo della visita ad un centro culturale ha radici lontane ed ancora oggi è la principale motivazione addotta da coloro i quali acquistano qualcosa dopo la visita ad una mostra o ad un museo. Molti musei stranieri, però, sono andati oltre la mera presenza al proprio interno di un giftshop tanto da specializzarsi nella realizzazione di questo tipo di oggettistica esportandola in tutto il mondo, creando così un vero e proprio marchio. Impresa che è stata abilmente realizzata da musei quali il Moma e il Met (che conta ben 12 filiali sparse in tutti gli U.S.A.), il British Museum, la Fondazione Mirò , tanto per citarne alcuni.
Nel nostro Paese, invece, la vendita di merchandising artistico nei musei e nei siti archeologici è regolamentata dalla legge Ronchey 4/1993, che ne affida la gestione ai privati esterni e non all’istituzione museale. Anche In Italia, comunque, i musei stanno cominciando ,negli ultimi anni, a specializzarsi in questo redditizio settore, creando catene dedicate alla distribuzione e vendita sistematica di merchandising artistico: ad esempio la collezione Electa museo-museo che raccoglie oggetti ispirati alle collezioni di numerosi musei italiani o siti culturali, come la Pinacoteca di Brera, il Colosseo e molti altri ancora.
Che valore occor  re attribuire alla diffusione di questo fenomeno? I pareri sono discordanti. Per molti la diffusione del merchandising artistico è l’ulteriore testimonianza di un processo di commercializzazione e banalizzazione, che ha reso l’arte una merce, un oggetto di consumo pari agli altri.Il ventesimo secolo è stato caratterizzato dalla possibilità, per la prima volta concreta, di riprodurre all’infinito le opere d’arte create dall’uomo. Quando Walter Benjamin , negli anni Trenta, intuì e descrisse argutamente questa possibilità poteva forse immaginare che a 27467 vremmo assistito a tanto? Ad opere immortali raffigurate sui più banali oggetti di uso quotidiano, alla coppia dipinta ne Il bacio di Klimt stampata sulle magliette come l’immagine di una qualsiasi rockstar, alla creazione in questo modo di un immaginario culturale in cui simbol  i e icone della cultura di massa e dell’arte coesistono, rendendo ormai obsoleta la dicotomia tra high e popular art. Scenario culturale in cui ciò che esiste di più sublime (l’arte) diventa alla portata di tutti.
È proprio in questa evidente contraddizione tra la banalità degli oggetti e il valore dell’opera d’arte in essi raffigurata che si cela la potenzialità educativa, l’intrinseca democraticità che il merchandising artistico può possedere e che può comunque renderlo uno strumento, anche se poco serio, di divulgazione dell’arte presso il pubblico..Finalità educativa che gli venne riconosciuta sin dai suoi albori.
Il Met (Metropolitan Museum of Art) di New York fin dalla sua fondazione nel 1870,27465aveva considerato nel suo stesso statuto l’attività di merchandising e di pubblicazione editoriale come fondamentale per la vita del museo in quanto strumento perpromuovere la conoscenza e lo studio delle belle arti. Più di un secolo dopo, Keith Haring, all’atto della fondazione del suo primo Pop-shop a Soho, quartiere di New York, il primo di un catena di punti vendita ,sparsi in tutto il mondo, di oggettistica ispirata alla sua arte , così esplicitava la funzione democratica attribuita non solo alla sua arte ma anche ai negozi da lui aperti: Volevo attrarre la stessa ampia fascia di pubblico, e volevo che fosse un posto dove potessero venire non solo i collezionisti, ma anche i ragazzini del Bronx.
Resta comunque da chiedersi se i ragazzini del Bronx abbiano mai messo piede nei Pop-shops newyorkesi e più in generale se la persona che acquista un oggetto di merchandising conosca l’opera d’arte a cui esso si ispira o, in caso contrario, sia stimolata dall’acquisto a conoscerla ed approfondire la propria personale conoscenza dell’arte.

alessandra gambadoro

[exibart]


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