11 giugno 2003

Architetti ai giardini

 
Biennale di Venezia. Tutti parlano degli artisti, il contenuto, noi approfondiamo i contenitori, i padiglioni nazionali ai Giardini di Castello. La poetica spazio-luce espressa nei padiglioni è la chiave di lettura per intraprendere il viaggio attraverso trenta nazioni. A passeggio per la storia dell’architettura…

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Venezia 1895. Ha inizio la storia della Biennale. I Giardini di Castello aprono le verdi pagine di un libro che narra dei suoi attori: i padiglioni destinati alle esposizioni.
In molti, fra i celebri nomi della cultura progettuale, contribuiranno alla stesura di questa brillante pagina di storia dell’architettura. Alvar Aalto,  Gerrit Rietveld, Joseph Hoffmann, Sverre Fehn, James Sterling e ancora tanti altri maestri trasformeranno quel giardino in un viaggio attraverso trenta nazioni e trenta diverse lezioni di architettura open air.
I giardini diventano un luogo di sperimentazione progettuale che incuriosisce non solo per gli eventi artistici che da quel momento popoleranno la Biennale di Venezia , ma anche per le prove di architettura che i più rappresentativi architetti a livello Padiglioni Norvegia internazionale sono chiamati a eseguire.
La passeggiata per i giardini di Castello diventa un andar per architetture, una preziosa promenade attraverso la storia della cultura progettuale mondiale e l’interpretazione della dialettica spazio-luce.
La chiave di lettura per osservare i progetti per i padiglioni risiede infatti nel gioco di rimandi che si stabilisce fra lo spazio e la luce in un ambiente destinato all’esposizione, una delle funzioni che più esigono una sapiente e calibrata illuminazione.
Il progetto deve rendere lo spazio desideroso di catalizzare la luce secondo modalità attente alla riflessione del visitatore innanzi alle opere d’arte esposte. Il momento estatico non deve essere turbato da raggi aggressivi, accecanti, aspri. La luce dovrà permeare l’ambiente con gesto gentile, modificando la sua naturale traiettoria e diffondendosi senza urlare.
Non è un caso che le risposte più convincenti a tali esigenze provengano dai paesi nordici, geograficamente e per tradizione sensibili ai modi di introiettare la luce nello spazio di architettura.
Nel 1956 Alvar Aalto realizza il padiglione finlandese (oggi islandese, vi troverete le opere di Rúrí). Tutto in legno. Il suo obiettivo è quello di pilotare il viaggio della luce perché essa si proponga diffusa, utile ad una piacevole lettura delle opere che di volta in volta il padiglione ospiterà.
Padiglioni Alvar AaltoIl maestro finlandese studia a tal fine una soluzione a farfalla per la copertura vetrata. Due ali di legno si incrociano offrendo un primo punto di appoggio ai raggi della luce e sollecitandola successivamente a scivolare diffusa all’interno del padiglione.
Blu mare è il colore scelto per l’esterno. Di una gradazione simile a quella delle maioliche presenti nel giardino di villa Marea e che ricorda la tinta dei padroni indiscussi del territorio finnico, tanto da suggellarne un tratto di identità culturale, i laghi. Quel blu dialoga anch’esso con la luce, ne recepisce il messaggio e a questo risponde brillando, disponendosi ad una conversazione gaia e intensa con il sole.
Un altro progetto attento alla dinamica spazio-luce è quello per il padiglione norvegese e svedese (che oggi ospita anche la Finlandia, Mamma Andersson, Kristina Bræin e Liisa Lounila saranno gli artisti che vi esporranno per questa Biennale). Ci pensa Sverre Fehn nel 1962. L’abilità con la quale l’architetto disegna i voli della luce si affianca all’eleganza dell’atmosfera creata: intensa, morbida, semplice, appaga i sensi e lo spirito del visitatore.
Come Aalto, Fehn sceglie il legno per vestire la sua idea, materiale di cui la Scandinavia è prodiga. E il legno è un materiale dispensatore di qualità per lo spazio architettonico: è elegante, caldo, dà verbo ai colori dell’intorno, e nello spazio di Fehn propone con garbo e misura un’aura arancionata e sospesa.
La lezione nordeuropea sul ruolo della luce nella composizione architettonica è sicuramente la più significativa, e i giardini di Castello sono una buona occasione per recepirla, per registrarla, per assorbirla nel comportamento progettuale.
Non meno sensibili ai processi dell’illuminaziPadiglione australia one sono gli australiani, sia pure per esperienze ambientali legate ad una diversa collocazione geografica.
Nel 1987 Philip Cox racconta, attraverso il padiglione australiano (vi saranno esposte le realizzazioni sexy-pop di Patricia Piccinini), la sua terra generosa di sole e di brillanti cromatismi. Ancora una volta la regina della composizione è modulata, mai diretta, sempre diffusa, mai fredda, sempre avvolgente.
Aalto, Fehn, Cox creano un’architettura adulta, psicologica, biologicamente viva per la scelta del materiale, il legno, e per il dialogo attivo e pulsante che essa concretizza col sole.
Più rigido, quasi imbalsamato, si presenta il padiglione tedesco di Ernst Haiger del 1909 (per la 50. Biennale ospiterà i lavori di Candida Höfer e Martin Kippenberger), incorruttibile e pesante nell’aspetto. Quasi finto e privo di identità, se non quella presa malamente a prestito dalla cultura neoclassica europea, è il padiglione americano di Aldrich e Delano del 1930 (a rappresentare gli States troveremo Fred Wilson).
La passeggiata per la Biennale continua…Incontreremo Léon Sneyens per il Belgio (1907), Umberto Bellotto per la Francia (1912), Joseph Hoffmann per l’Austria (1934), Gerrit Rietveld per l’Olanda (1953), Carlo Scarpa per il Venezuela (1954), Takamasa Yoshizaka per il Giappone (1956), BBPR per il Canada (1962) e ancora tanti altri maestri.
Gli architetti sono in giardino. Passeggiando li incontreremo tutti, ad uno ad uno, in una dimensione nella quale il tempo sembra sospeso e la storia continua il suo racconto, instancabile e maestra.

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francesca oddo

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