28 agosto 2003

Il fotogiornalismo di Magnum

 
Dopo la pausa estiva riprende regolarmente il ciclo di approfondimenti sulla fotografia curati dalla redazione fotografica di Exibart. Continua l’indagine sulle affinità tra il fotogiornalismo del secondo dopoguerra e le coeve pratiche informali riscontrabili nelle arti visive. E, nel prossimo numero, i paparazzi…

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Delle analogie sostanziali riscontrabili tra il Reportage e la pittura Informale e in seguito anche in certa Body art, abbiamo già detto negli ultimi due approfondimenti cui rimandiamo (vedi articoli correlati). Di seguito e nei prossimi interventi ci limiteremo dunque a certificare quanto affermato, ripercorrendo i tratti salienti del fotogiornalismo storico. Iniziamo necessariamente dalla Magnum, l’agenzia fotogiornalistica che determinò, attraverso l’opera dei suoi primi autorevoli iscritti, il gusto e la prassi del fotoreportage a venire.
Nel 1947 Henry Cartier-Bresson (1908), Robert Capa (1913-1954), David Seymour (1911-1956), Gorge Rodger e William Vandivert, fondano a Parigi la mitica Magnum Photos. Quest’agenzia che si propose di proteggere l’autonomia creativa dei suoi fotografi rispetto all’utilizzo sommario che la stampa poteva fare dei loro lavori, diffuse a livello internazionale la concezione reportagistica di Cartier-Bresson: bishof - india 1951 discendere nella realtà per cogliere, nell’istante stesso in cui avviene, il momento emblematico dell’evento da rievocare. Questa partecipazione attiva al fatto da riprendere, attraverso il gesto fotografico che concretizza la traccia visibile dell’azione, vissuta in prima persona, si è sublimata in maniera esemplare nell’esperienza professional-esistenziale dell’ungherese André Friedman, in arte Robert Capa, che non a caso era solito ripetere: “se le foto non sono abbastanza belle vuol dire che non sei abbastanza vicino”. Fotografo di guerra, Capa, diciotto anni dopo aver catturato in una famosa e discussa istantanea la morte di un miliziano spagnolo, si immola egli stesso sul fronte coreano alla causa “presenzialista”, causa che non prevede il game over virtuale dei mezzi di rappresentazione illusori, manuali o informatici che siano, ma esige il pedaggio dell’esserci. L’azione, il gesto fotografico, trasforma e rileva la realtà, ma anche la subisce. Solo due anni più tardi anche Seymour lo seguirà, in circostanze analoghe (mentre documentava la crisi di Suez), in questo tragico destino.
In Italia intanto il dibattito tra formalisti e realisti, cui si accennava nel precedente approfondimento, trovò un compromesso nella formula del “documento lirico”, un documento sintesi di forma e sostanza, in cui il realismo veniva incorniciato in gradevoli composizioni geometriche. Si guardò così con maggiore interesse all’area “formale” dell’agenzia Magnum, ai vari Bischof e in alcuni casi alla realtà messa in scena enfaticamente (nella composizione, nei toni chiaroscurali drammatici e nelle poserobert capa - morte di un miliziano 1936 ricostruite) da fotografi quali lo statunitense W. Eugene Smith. Fulvio Roiter per i suoi reportage degli anni ‘50 utilizzò in quest’ottica l’high key, made in La Bussola e sempre su un versante formale, anche se stemperato dalla frequentazione parigina dell’epoca e quindi dalla conoscenza dell’opera di Henry Cartier Bresson, Doinesnau e Brassai, muoveva poi i primi passi Gianni Berengo Gardin (1930). Una dicotomia tra forma e realtà, quella di Berengo Gardin, mai risolta, la stessa dicotomia che nel 1976, insieme a Zavattini, gli fa ricalcare le orme di Paul Strand a Luzzara nel progetto: Un paese vent’anni dopo, in una sorta di continuità ideale fra la sua opera e quella del fotografo americano.
Nel prossimo approfondimento esamineremo l’invadente “discesa nel reale” effettuata dai paparazzi.

articoli correlati
Il Reportage, ovvero la presenza nell’evento
Henry Cartier Bresson e “l’informalità” del Reportage
link correlati
http://artplus.it/eventi/fotografia/natchway.php
www.magnumphotos.com

roberto maggiori

[exibart]

3 Commenti

  1. Complimenti. Anche io ho affrontato l’argomento della fotografia concerned, sociale, nella mia tesi di laurea, sui seguenti fotografi: Mimmo Jodice, Luciano D’Alessandro, Caio Garrubba, Antonio Tateo. Poi ho pubblicato un articolo sulla “Fotografia come documento”. Se vi interessa posso inviarvi qualche testo con le interviste ai protagonisti, da pubblicare su exibart. Gerardo Pecci

  2. L’articolo è interessante, ma mitizza eccessivamente il ruolo della Magnum e di H.C. Bresson. La Magnum è un’agenzia che ha una scarsa presenza nel mercato del fotogiornalismo e la sua fama è in parte ingiustificata. Credo che sia una forzatura trovare dei legami della fotografia con l’arte contemporanea e non colga l’importanza e l’originalità del mezzo.
    La fotografia ha bisogno di essere conosciuta per quello che è e non per quello che gli storici dell’arte vorrebbero che fosse.
    Purtroppo ci sono sempre più spesso persone che scrivono di fotografia, conoscendo molto poco della fotografia.

  3. Vorrei precisare che quando scrivo che si occupano di fotografia molti studiosi che non conoscono nulla di fotografia non mi riferivo a Roberto Maggiori, che apprezzo e di cui seguo da tempo l’attività di saggista, ma delle tante persone che s’improvvisano esperti.
    La fotografia è complessa e sfuggente e va compresa per quello che è. IL fotogiornalismo è il settore della fotografia che ha maggiore visibilità e nonostante tutto lo conosciamo molto poco. Ci sono tanti protagonisti italiani poco noti e che forse valgono quanto un H.C.Bresson, parlo di Caio Carruba e dei fratelli Sansone, per citare autori napoletani.
    Credo che più che santificare i miti del fotogiornalismo internazionale, forse è più proficuo, valorizzare i tanti cha hanno praticato questa professione e che sono rimasti anonimi, perchè purtroppo in Italia la fotografia per troppi anni è stata un’attività, che non meritava attenzione.

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