25 marzo 2019

L’INTERVISTA/ ORLAN

 
CONTRO IL SONNO DELLA CULTURA
Incontro speciale con un’artista dal forte temperamento, che usa l’arte come strumento di “analisi” della nostra società

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In occasione dell’incontro – curato da Renato Barilli in collaborazione con Silvia Grandi, Pasquale Fameli e The Sloughis – tenuto al DAMSlab, in concomitanza con Arte Fiera 2019, ho avuto l’occasione di incontrare ORLAN, la celeberrima artista francese che di un “ripensamento” del corpo ha fatto la sua bandiera poetica. Di seguito la nostra intervista.
Chi sei?
«Io sono ORLAN, tra le altre cose e per quanto possibile (entre autre et dans la mesure du possible), e il mio nome si scrive con ogni lettera maiuscola, perché non voglio rientrare tra le linee e perché desidero differenziarmi dalla norma ed essere qualcosa d’altro. È importante precisarlo perché è un obiettivo molto difficile da ottenere».
Hai ribadito in più occasioni che sei a favore di un’identità nomade, mobile, mutante…
«Per me il corpo è solo un costume e ognuno è capo di se stesso, libero di cambiare al di là delle imposizioni della società e della religione».
Che ruolo attribuisci all’arte?
«L’opera d’arte deve collocarsi non solo nella storia dell’arte, ma anche nella Storia.  Non realizzo mai una scultura o una performance che non siano frutto di una riflessione e dell’analisi della nostra società. Bisogna comprendere ciò che succede sul piano scientifico, filosofico, sociale. Ciò che mi amareggia della nostra epoca è il fatto che l’istinto abbia la meglio sulla ragione.  L’uomo contemporaneo agisce senza pensare, senza argomentare. Dobbiamo recuperare le informazioni, analizzarle e trattenere quelle più importanti, prendere delle decisioni. Ciò vale per me sia come cittadina, che come artista».
 
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Mask of Beijing Opera, Facing Designs and Augmented Reality Self-Hybridizations, 2014, Self-hybridations Masques de l’Opéra de Pékin, Facing Designs et réalité augmentée
Fino a che punto si possono spingere i confini della chirurgia estetica, sia per motivi estetici che artistici. C’è un limite? Lo hai raggiunto?
«Ciascuno pone il proprio limite dove crede. Per me è molto importante ‘spingere le cose’, uscire dal quadro, non provare dolore e usare la chirurga estetica come partenza per cambiare immagine e realizzare nuove opere. Ciò che faccio è tutto organizzato e orchestrato in maniera volontaria, non è mai subito, al contrario di quanto succede a un corpo malato».
In che rapporto sei con Marina Abramović?
«Stimo molto Marina, è un’amica, ma ci distingue un’importante differenza: lei fa soffrire il suo corpo, come molti altri artisti degli anni ’70 che hanno deciso di indagare i limiti fisici e psicologici dell’uomo, per me, invece, l’aspetto principale è non provare dolore. Trovo il dolore anacronistico e voglio dimostrare che nella nostra epoca è possibile avere il ‘corpo aperto’ su un tavolo operatorio senza soffrire».
Sono rimasta molto colpita dal video No Baby No, puoi descriverci meglio il suo significato?
«Avere figli non è ecologico. Io propongo, come in Petizione contro la morte, il tentativo di “uscire dal quadro”. Il semplice fatto di immaginare che sia possibile non morire oppure vivere molto a lungo cambia i paradigmi. In No Baby No denuncio il fatto che la società si aspetta che la donna concepisca dei bambini. Se fai dei figli tutto rientra nell’ordine delle cose. La donna si deve occupare della casa, della prole e così facendo non si dedica ad altre attività intelligenti e interessanti. Inoltre, una mamma che si dedica solo ai propri bimbi trasmette e perpetua questo modello di donna».
Nel corso della tua carriera hai abbattuto molte barriere (religiose, sociali, dell’estetica comune): ce ne sono altre da superare?
«Il nudo viene ancora censurato. Ed è ridicolo perché sappiamo tutti com’è il corpo ed è assurdo voler oscurare la sua rappresentazione. Ogni giorno, nella nostra vita sia privata che pubblica, dobbiamo batterci per la libertà e le libertà, perché la libertà è come la democrazia, non esiste a priori: dobbiamo lavorare ogni giorno per conquistarla».
 
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Mask of Beijing Opera, Facing Designs and Augmented Reality Self-Hybridizations, 2014, Self-hybridations Masques de l’Opéra de Pékin, Facing Designs et réalité augmentée
Puoi parlarci del tuo progetto ORLANOÏDE? Come sei riuscita a mescolare l’intelligenza artificiale con quella sociale e collettiva?
«L’ORLANoïde è un robot che mi assomiglia, posto al centro di un’installazione composta da due grandi schermi che proiettano mie performance e da specchi che moltiplicano l’immagine del robot. Ho registrato 22.000 parole affinché ORLANoïde possa parlare con la mia voce. Un generatore di movimento e un generatore di testo mescolano le parole della macchina con le mie poesie. Un teatro di Deep Learning è creato da me che pongo domande a ORLANoïde attraverso le mie apparizioni nelle due schermate. Tre mie performance filmate sono proiettate all’interno di questi due schermi: una è la petizione contro la morte, che fa un cenno al transumanesimo, un’altra è intitolata No Baby No e l’ultima è Io ho fame, sete e potrebbe essere peggio. In quest’opera ho ibridato tre intelligenze: quella artificiale, quella collettiva e quella sociale. Ho chiesto ad alcune personalità di farmi domande che l’ORLANoide dovrebbe chiedere a ORLAN e che ORLAN dovrebbe chiedere a ORLANoïde. Le ho quindi incluse nel Deep Learning Theatre. Per quanto riguarda l’intelligenza sociale, invece, ho pubblicato sul mio sito il questionario di Proust, ma le risposte ricevute dal pubblico sono state così strazianti che non sono riuscita ad includerle nel progetto. Infine, per quanto riguarda l’intelligenza collettiva, ORLANoïde è un work in progress e quindi non tutte le domande sono ancora disponibili».
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Mask of Beijing Opera, Facing Designs and Augmented Reality Self-Hybridizations, 2014, Self-hybridations Masques de l’Opéra de Pékin, Facing Designs et réalité augmentée
La tua produzione è molto varia: potresti descrivercene gli altri aspetti, dalla fotografia in scala 1:1, ai video 3D, alla scultura passando per la pittura e i mixed media?
«Non sono né tecnofila né tecnofobica e non sono soggetta a una pratica tecnica e/o tecnologica. Mi piace vivere il mio tempo e avere una distanza critica. Sono costantemente sveglia. Sono solita sviluppare un’idea di lavoro pertinente con il contesto in cui vivo e che percepisco come un fenomeno sociale; quindi mi pongo in termini interrogativi rispetto ad esso e cerco di trovare la materialità, lo stile con cui realizzerò il lavoro per concretare il significato di quella idea. Ho realizzato sculture, utilizzato resine e marmo, ho impiegato il 3D, mi sono dedicata alla fotografia, conferendole un aspetto scultoreo, così come alla pittura, al video, alla realtà aumentata, passando per le biotecnologie, la robotica e l’intelligenza artificiale. Nel mio lavoro, in generale, metto in discussione lo stato del corpo nella società muovendo una critica verso tutte quelle pressioni culturali tradizionali, politiche e religiose, che s’imprimono nei corpi e in particolare in quello delle donne».
 
E c’è anche un’app, dove si vede l’avatar dell’artista in 3D e potrete fare un selfie con lei
Maria Chiara Wang
 

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