20 settembre 2018

Tra le pieghe della città. A Palazzo Zevallos, fotografie della Napoli che non si dice in giro

 

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Tutto ciò che coesiste è contemporaneo, a prescindere dalle epoche, dagli stili, dalle tecniche che ne hanno consentito la realizzazione. Con la mostra “Metabolismo napoletano”, visitabile presso Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano fino al 30 settembre, Luciano e Marco Pedicini presentano un progetto fotografico che li ha impegnati per due anni sulle tracce di ideali convergenze rinvenibili nelle sedimentazioni storico artistiche del napoletano. 
Eccellenza della fotografia d’arte da tre generazioni, i Pedicini hanno raccolto un archivio, in continua sistemazione dal 1984 e consultabile online, di oltre 100mila fotografie relative all’archeologia, all’architettura e all’arte, prezioso punto di riferimento per editori e studiosi di tutto il mondo. Di questa familiarità con il territorio si sostanzia un progetto che rifugge da archetipi oleografici per presentare una Napoli concettuale, rintracciabile dal sottosuolo al cielo. 
«Siamo partiti dal trittico Germinale – ha rivelato Luciano Pedicini – punto di origine dal quale sono scaturiti gli altri accostamenti». In quest’opera, l’immagine del Frigidarium o Tempio di Mercurio del Parco Archeologico di Baia si seziona per accogliere le opere Crater de Luz e Olas di Óscar Tusquets Blanca e Relative light di Robert Wilson della Stazione Toledo della Metropolitana. Nei quattro pannelli del polittico Fratture Composte, si affiancano, come un pattern grafico, le concrezioni calcaree dell’Ipogeo dei Togati alla Sanità, le sarciture cementizie dell’Ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, il lastricato romano del Parco Archeologico di Cuma e il particolare del Grande Cretto Nero di Alberto Burri conservato al Museo di Capodimonte. Di immediata efficacia allusiva è l’accostamento di Caronte e i dannati di Pedro de Rubiales e del murale di Blu apparso nel 2016 sulle mura esterne dell’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei, nel dittico Der Mennsch ist ein Abgrund (L’uomo è un abisso). 
Nella reinterpretazione di una Napoli ideale mancano alcuni paradigmi tradizionalmente accostati alla città, come ha sottolineato Marco Pedicini: «Non c’è il mare, non ci sono i teschi, ci siamo soffermati sull’astrazione più che su ciò che è dichiarato». E difatti esulano del tutto dalla narrazione convenzionale i dittici Migrazioni e Troppo Tardi #2. Nel primo, gli abiti e i binari dell’opera Senza titolo di Jannis Kounellis della Stazione Dante della metropolitana, si confrontano con l’imbarcazione carbonizzata del I secolo ritrovata ad Ercolano, mentre nel secondo, un particolare del fregio delle Storie della vita e del martirio di santa Caterina d’Alessandria, di Pacio Bertini, conservato al Museo dell’opera di Santa Chiara, trova il suo contraltare in Frammenti di un autoritratto anonimo di Carlo Alfano, esposto sempre nella Stazione Dante. 
Nessuna forzatura, piuttosto, una naturale continuità che svela, come ha messo in evidenza il direttore del Madre, Andrea Viliani, «Una città in asse con il proprio tempo, che non è un tempo semplice ma complesso. Il contemporaneo qui non è un fatto cronologico, ma ermeneutica lode della complessità». (Giovanna Bile)

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