11 novembre 2018

L’intervista/ Enzo Cannaviello

 
MEZZO SECOLO D’ARTE “ALTERNATA”
Avverso alle fiere, ma pronto a scoprire i giovani. A tu per tu con uno dei galleristi più “solidi” d’Italia

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È passato da Caserta, a Roma, a Milano. Ha esposto uno sconosciuto Mimmo Paladino e condiviso lo spazio con Lucio Amelio. Odia le fiere perché mettono “l’affare” davanti all’arte e hanno contribuito alla messa al palo della professione di gallerista. Dice che non conquisterà l’Asia perché non ha più l’età, ma in questa intervista ha spirito da vendere: ecco Enzo Cannaviello, e la sua lunga storia dell’arte. E del mercato.
Enzo Cannaviello, lei è un pioniere dell’arte contemporanea interessato al nuovo, cinquant’anni di esplorazione e promozione di artisti sconosciuti in Italia. Dove e quando ha scelto di diventare un gallerista, e perché?
«Ho scelto di diventare gallerista nel ’68, a Caserta, dopo che mia moglie, allora artista, mi introdusse nel sistema dell’arte, al quale mi appassionai ben presto».
Quale eredità gli ha lasciato Lucio Amelio, gallerista illuminato degli anni ‘60/70 che ha sprovincializzato Napoli con la quale ha collaborato?
«Lucio Amelio è stato il mio mentore e fra l’altro, per pochi mesi, è stato mio socio nella galleria (Studio Oggetto), che avevo aperto a Caserta».
Negli anni ’70, prevalgono linguaggi non figurativi, happening, performance e la sperimentazione del video e della fotografia e installazioni ambientali: lei nel 1971 punta su Mimmo Paladino, allora ancora sconosciuto, dove e cosa ha esposto?
«Infatti la mostra di Mimmo Paladino era costituita da un’installazione ambientale (c’era anche il sonoro) e l’ho realizzata proprio nella mia prima sede».
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1982 – Enzo Cannaviello e Sigmar Polke nel suo studio di Colonia scelgono i lavori per la mostra

Nel 1971, quando poi si trasferisce a Roma, dove prevalgono nuovi linguaggi come Narrative Art, Fluxus, Iperrealismo, lei espone Fabio Mauri, all’epoca isolato e fuori dal sistema dell’arte, perché? 
«La scelta di Fabio Mauri innanzitutto era innovativa e poi rifletteva bene i tempi in cui era prodotta la sua opera, a differenza degli artisti della Scuola di Piazza del Popolo».
Che clima si respirava a Roma negli anni ’70 e come la “Scuola di Piazza del Popolo” è riuscita a imporsi nel mercato dell’arte?
«La Scuola di Piazza del Popolo è riuscita a imporsi sul mercato perché più “facile” e più adatta al pubblico romano che di solito predilige gli artisti locali».
Perché ha investito su Giosetta Fioroni, unica donna artista del gruppo di Piazza del Popolo, con una mostra personale intitolata “A 9 anni” nella sua galleria romana ?
«L’opera di Giosetta Fioroni era più legata all’immagine e iconograficamente più sofisticata. E poi appunto perché donna».
Perché nel 1977 ha scelto Milano, quali sono secondo lei i limiti di Roma di ieri e di oggi nell’ambito del sistema dell’arte?
«Oggi non conosco abbastanza bene la situazione romana per poterne parlare ma, all’epoca, quello che contava erano le amicizie. La conoscenza e l’informazione contavano poco. Al contrario di Milano invece, che è stata sempre attenta al nuovo, tanto che la galleria si riempì totalmente alla prima mostra che feci (Urs Lüthi). Comunque è da sottolineare che, pur avendo la metà della popolazione romana, Milano ha un mercato superiore».
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1983 – Alighiero Boetti nel suo studio
Perché non si è trasferito a New York, la capitale dell’arte contemporanea dove Germano Celant ha promosso il gruppo dell’Arte Povera, nato nel 1967?
«Effettivamente era mia intenzione trasferirmi a New York ma, per una serie di motivi, alcuni dei quali legati alla situazione familiare, non ci andai. Poi fui tentato di trasferirmi in Germania ma in quel Paese, in quel momento storico, non c’era una città che fosse, dal punto di vista artistico, più completa di Milano. La Capitale tedesca dell’arte era allora Colonia che è una città piccola rispetto al capoluogo lombardo».
Negli anni’80, giro di boa: l’arte sperimentale è “out”, invece la pittura, la figura, il colore, sono “in” i Neo Espressionisti e la Transavanguardia di ABO e lei punta, tra gli altri, su artisti tedeschi su George Baselitz e Raniner Fetting e Sigmar Polke, oggi di fama internazionale ma allora sconosciuti in Italia, come ha intuito il loro valore artistico? 
«Tutto nacque da un mio viaggio a Berlino dove scoprii i Nuovi Selvaggi in una galleria autogestita che si chiamava Galerie am Moritzplatz. Ebbi un’autentica folgorazione e il tempo mi ha dato ragione, avevo intuito il loro valore».
Negli anni’80 nella Milano da bere dove anche l’arte è più che mai prodotto di scambio di valori materiali e immateriali, lei punta su artisti stranieri. Perché ha trascurato gli artisti italiani poi penalizzati dall’emarginazione del sistema dell’arte in quanto snobbati dai galleristi?
«Non mi sembra che gli artisti italiani siano mai stati snobbati, sono sempre stati i preferiti dai galleristi di questo Paese».
Dopo le mostre dedicate a Jean Dubuffet, esponente dell’Art Brut, tra gli anni ‘80/90 espone i lavori di tre dei protagonisti dell’Azionismo Viennese: Arnulf Rainer, Hermann Nitsch e Gunter Brus, allora artisti “indigesti”. Oggi secondo lei come si posizionano nel mercato dell’arte? Sono richieste dai collezionisti le loro opere, oppure funzionano solo nelle mostre antologiche promosse da galleristi o istituzioni pubbliche?
«I protagonisti dell’azionismo Viennese hanno un mercato molto solido in Italia ma soprattutto nei Paesi di lingua tedesca».
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1999 – Enzo Cannaviello e Günter Brus
Come definirebbe oggi la sua esperienza di Presidente dell’Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, ruolo che ha ricoperto per tre mandati? Lo rifarebbe? Come?
«L’ANGAMC è indubbiamente un organo importante ma impegnativo. Io tentai di spostare il suo baricentro soprattutto sulla cultura ma fu difficile. Non ripeterei oggi quell’esperienza perché non ci sono le condizioni: io sono soprattutto contrario alle fiere mentre l’attuale associazione collabora con esse».
Oggi cos’è il sistema dell’arte e come lo spiega a un giovane collezionista o artista?
«Il sistema dell’arte oggi è dominato dalle fiere e dalle aste. Per cui il ruolo insostituibile del gallerista è messo a dura prova. Ormai conta più “l’affare” che l’opera e la galleria non è più l’unico mezzo di conoscenza per il pubblico».
Cosa pensa degli artisti Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro che rappresenteranno il Padiglione Italia scelti dal curatore Milovan Farronato in occasione della prossima Biennale di Art Visive a Venezia 2019?
«Non conosco bene il loro lavoro ma penso siano in linea con le nuove tendenze che la Biennale sta seguendo da molti anni».
Negli anni ’90, nella sua galleria in via Cusani a Milano (Brera) investe nel “Neoiconismo”; ha avuto successo di critica e di mercato? Oggi lo riproporrebbe?
«Non rinnego quella scelta. Anzi penso che i suoi protagonisti, con il tempo, assumeranno sempre maggiore importanza».
Nella sua galleria in via Stoppani (porta Venezia) inaugurata del nuovo millennio, propone esposizioni ibride, alternando mostre di artisti “storicizzati” e “emergenti”: tra questi quali si sono posizionati meglio nel mercato dell’arte ?
«La posizione nel mercato di quegli artisti allora giovani è oggi evidente ma io credo che sia destinata a crescere ancora. Penso che il tempo mi darà ragione».
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1995 – Lucio Dalla ed Enzo Cannaviello alla fiera di Bologna
Dal 2016 nella sua galleria milanese in Piazzetta Bossi 4, nel centro storico, incastonata tra il Teatro alla Scala e Brera, perché ha scelto prevalentemente di esporre “maestri” o artisti affermati? Non le pare di tradire la sua vocazione di esploratore di talenti?
«Quando non riesco a trovare dei veri talenti mi rifugio nella storia della galleria dove la situazione è molto più consolidata e conosciuta».
Dopo ’50 anni di attività, una professione costruita sul campo, carica di esperienze e scambi internazionali, perchè non mira a conquistare l’Asia come molti suoi colleghi ?
«Non ho più l’età».
Ha rimpianti? 
«Alcuni rimpianti sono legati a episodi molto sfortunati che mi sono accaduti nella mia attività. Però li ho sempre superati e ho proseguito il mio percorso».
Immaginiamo che domani le affidino un mandato di direzione di una fiera d’arte contemporanea. Quali artisti di ieri e di oggi punterebbe per “svegliare” il collezionismo nazionale e estero?
«Non credo che mi proporranno mai un incarico del genere perché è molto conosciuta la mia avversione alle fiere». 
Può tentare un identikit del collezionista oggi?
«Il collezionismo esisterà sempre, ma oggi prevale l’aspetto speculativo grazie a una mentalità inculcata dalle fiere e dalle aste. Per fortuna, però, esistono ancora dei collezionisti “puri”, anche se pochi».
Milano è ancora la capitale dell’arte contemporanea? Perché?
«Milano, in proporzione al numero degli abitanti, ha più gallerie di qualsiasi altra metropoli al mondo, comprese Londra e New York. Ciò significa che c’è una “domanda” ancora forte».
Cosa sta meditando per la stagione espositiva 2019? Ci riserverà qualche sorpresa?
«La prossima mostra sarà dedicata al multiplo. Ma, come al solito, voglio alternare grandi protagonisti dell’arte internazionale a giovani emergenti».
Jacqueline Ceresoli

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