13 febbraio 2007

fino al 23.IV.2007 Rachel Whiteread / Marisa Merz Napoli, Madre

 
Double fantasy senza troppa fantasia e con qualche “segno di squilibrio”. Vuoti di spazio e vuoti di idee tra calchi e ricalchi. Delle proprie orme, ma non solo. Su tutto, l’ombra di Eduardo...

di

Te piace o presepio?. No, proprio non si poteva non sentir aleggiare il fantasma di Eduardo De Filippo durante il disvelamento di Village, l’installazione site specific con la quale Rachel Whiteread (Londra, 1963) ha aperto la propria retrospettiva partenopea. “La prima mostra museale in Italia”, recitava il battage, metà di un duetto che disattende in (non piccola) parte le aspettative della vigilia. Che erano alte, specie nel caso della collega e compagna d’avventura Marisa Merz (Torino, 1931).
Ma torniamo alla Whiteread e a quello che doveva essere il punto di forza della sua première, ovvero l’elaborato omaggio site-specific parzialmente trasformatosi in autogol: perché l’installazione al pianterreno, delizioso assemblaggio-assembramento di cinquantatre case di bambola by night, va per sua sventura a cozzare contro un immaginario locale profondamente radicato, propenso, per giunta, ad una talvolta corriva salacità. Sicché l’eco del tormentone di Natale in casa Cupiello finisce col sopraffare il suggerito ricordo dei plastici pompeiani (al più, le costruzioni abbarbicate su terrazzamenti verticali ricordano i panorami di Costiere o le colline flagellate dalla speculazione edilizia). La personale prosegue al terzo piano, attraverso un’asciutta e dignitosa carrellata, che propone capitulatim le chiavi di un lavoro imperniato su manipolazione dello spazio, uso dei calchi, sperimentalismo materico, sovvertimento percettivo dei concetti di vuoto e di pieno e dell’idea convenzionale di scultura. Volenteroso, ma limitato e poco eloquente, il tentativo di documentare fotograficamente gli interventi su vasta scala. Complessivamente, però, si coglie una visione unificante e didattica.Rachel Whiteread, Village, 2006. Installazione di 53 case di bambola, tecnica mista, dimensioni variabili. Courtesy dell’artista. Foto di Johnnie Shand Kyd
Nel caso di Marisa Merz (Torino, 1931), bisogna invece sbrogliare anzitutto l’assunto di partenza, districandosi tra un lancio che parlava di “retrospettiva” e la realtà di un percorso ibrido fra antologica non stricto sensu e omaggio d’occasione, visto che, contrariamente a quanto pubblicizzato, la rassegna non testimonia né esemplifica, al di là di una “Testina”, le tappe più significative di una carriera ultraquarantennale, concentrandosi sulla produzione degli ultimi sei anni. Assodato questo, resta il fatto che la vedova del grande Mario, nota per gli environments e l’eclettismo, da questo focus –fatta eccezione per la Fontana di piombo e pietre- viene fuori soprattutto come pittrice. E –absit iniuria verbis- non ne esce neppure tanto trionfalmente, almeno in quanto ad originalità, specie per i marcati accenti transavanguardisti ripassati nel fauve che rimandano all’affinità –ineludibile da queste parti– con Mimmo Paladino (sarà questa la vera “convergenza parallela” cui ha accennato il governatore Bassolino in conferenza stampa?). Banali, poi, accorgimenti come scotch, graffette e puntine da disegno quali metafore di caducità e memento dell’originario ceppo poverista.
Insomma, a differenza di eventi passati (Kounellis e Nauman), rivelatisi, al di là dei gusti, ben più corposi, strutturati ed esaustivi, sfugge il valore pregnante di un pendant difettoso nell’impatto emotivo e carente di prospettiva storica. Soprattutto nel caso della Merz, la sensazione è quella di una prova poco appassionata, salvata in corner, formalmente, da pindariche analisi di un cromatismo di facile seduzione e, concettualmente, da elucubrazioni biografico-estetiche.
La domanda, allora, diventa un’altra: se un grande attore possa campare di rendita sulla propria gloria, o esibirne insinceramente i cascami fino a diventare epigono di se stesso. Certo, si possono sempre tirare in ballo gli-ultimi-esiti-di-un-work-in-progress, o appellarsi ad un’intoccabilità d’ufficio per fama ed età, ma resta aperta la questione delle responsabilità verso il pubblico.
Marisa Merz, Senza titolo, 2004, cm. 285x 490 x 55, tecnica mista su carta, travi di legno
A chi tocca la patata bollente? Al curatore che, pur rispettando la libertà del creativo, non riesce ad opporsi quando questi gli presenta “prendere-o-lasciare” un lavoro scialbo e scolastico? All’artista, che non riesce ad opporsi al curatore, nel momento in cui questi gli confeziona un percorso poco rappresentativo e di opinabile spessore? È la solita, vecchia storia dell’uovo e della gallina. A proposito di uova: il prossimo appuntamento di Donnaregina sarà con Piero Manzoni. Attenzione alle frittate…

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Bruce Nauman al Madre

anita pepe
mostra visitata il 3 febbraio 2007


Rachel Whiteread – Marisa Merz. Napoli, Madre, Museo d’Arte Donnaregina, via Luigi Settembrini 79 (quartiere San Lorenzo, centro storico), (80139). Orari: dal lunedì al giovedì e domenica ore 10.00 – 21.00; venerdì e sabato ore 10.00 – 24.00 chiuso il martedì (possono variare, verificare sempre via telefono). Biglietti: Intero: € 7.00, ridotto: € 3.50. Cataloghi Electa. Per info e prenotazioni: +3908119313016 www.museomadre.it – Accesso ai disabili: agevole

[exibart]

12 Commenti

  1. Concordo! Complimenti a Exibart e all’autrice! Anche le osservazioni sul rapporto tra artista e curatore sono estremamente interessanti. Sui contenuti – non ho visto la mostra – resta forse da aggiungere che è meglio un museo che rischia (come poteva non essere un rischio con Marisa Merz?) che un museo che raccoglie le opere dell’ultima mostra dell’artista in galleria. Quindi complimenti anche al Madre!

  2. Cara Anita, come al solito hai colto nel segno!
    Concordo pienamente con la tua recensione.All’indomani dell’inaugurazione a chi mi chiedeva un parere sulla mostra ho esattamente espresso la stessa opinione. Passi il percorso della Whiteread che ,sebbene debole in alcuni momenti, risulta quanto meno esplicativo di un iter coerente e di una ricerca dagli esiti più o meno efficaci. Ma che senso ha quello della Merz? Qual è il valore didattico e lo spessore culturale di una mostra che propina l’ultimissima produzione (delicata ma non particolarmente brillante!)di un’artista che ha fatto storia con “Arte Povera”? Non sarebbe stato più interessante capire qual era il punto di osservazione di quel contesto da parte di una donna?
    Scusate la cattiva fede ma francamente mi è sembrata la solita messinscena orchestrata ad arte (ma non troppo!)per dare risalto e visibilità al parterre piuttosto che ai contenuti!

  3. La cosa più triste è che mentre gli amici al potere ci facevano un’altra volta il “servizio”, quelli che dicevano di voler combattere “il palazzo” si sono appostati nel palazzo accanto al madre, e si sono suonati, cantati e ballati la tarantella tutta la sera.

    Da un lato ti inc***no e dall’altro si stonano in allegria… qua è proprio una tragedia.

  4. Per capire l’ultima trovata al MaDre basta vedere la faccia del direttore ( Exibart-Tv ). Sembre un barbone sull’orlo di una crisi di nervi. Consiglio di guardarlo senza audio per carpire il fallimento più totale di quest’ultima “impresa intellettuale”.
    Il Madre doveva e poteva essere il sogno di una città allo sbando. Purtroppo si è dato il “potere” a chi non riesce a produrre idee innovative e coraggiose ma applicare, anche in modo superficiale, solo ciò che si è letto su un qualsiasi manuale d’arte degli ultimi quarantanni. Ma questi signori a NYC o Londra piuttosto che a Berlino che ruolo avrebbero?
    Perchè qualcuno di buona volontà e potenza non gli affida e/o riaffida la Biennale di Venezia e ce li togliamo dalle scatole definitivamente?
    Per fortuna che Napoli ha anche “pensanti” come la divina Anita.Brava, brava, brava.
    Che ne dite di un referendum per candidarla quale osservatrice culturale per la programmazione del Pan e Madre; se non di più?

  5. anita, attenta a non esagerare. concordo con la merz ma la whiteread…i suoi pezzi sono di una tale raffinatezza e forse proprio per questo non sempre riescono ad essere compresi appieno.

    in bocca al lupo!

  6. grandissima la pepe, finalmente qualcuno con le palle! aggiungo che fare marchette a spese del contribuente in una città che vanta ben altre priorità, è ancora più grave

  7. Cara Anita, ma che mi combini?Fai come la volpe con l’uva o stai solo cercando di farti notare?In ogni caso manchi l’obiettivo…

    La mostra è una poesia. Uno sguardo nell’universo femminile attraverso due generazioni.Guarda ed impara!

    La tua critica non è autentica perchè autoreferenziale e senza alcuno spessore.

    E’ un bene per questa città fare i fatti e non le parole.
    W il Madre!

  8. che fretta c’era, maledetta Primavera… e quanto inutile, codardo, gratuito rancore… la volpe, se volpe fosse stata, avrebbe avuto in mano il violino, non la bacchetta tragica (così fan tutte… le furbe!). e l’uva, ricordi? “nolo acerbam sumere”. acerbam… e se il critico è la volpe e la mostra l’uva trai tu le conseguenze, e prima di zapparti i piedi, annaffiali d’umiltà, aprendo gli occhi su visioni semplicemente differenti

  9. ognuno fà il suo mestire è il gioco delle parti. l’artista-l’artista. il curatore- il curatore. il critico- il critico.
    e tu sai fare il tuo. penna intelligente.brava

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