10 gennaio 2008

architettura_opinioni Grattacieli e grattacapi torinesi

 
Metro più, metro meno. Il grattacielo che Renzo Piano ha progettato per il gruppo Intesa-Sanpaolo nel capoluogo piemontese ha trascinato con sé polemiche a non finire. Abbiamo fatto il punto con chi a Torino ci vive. Da architetto “fuori dai giri”...

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Per amicizia e, senz’altro più seriamente, perché giovane architetto torinese, estraneo ai giri più o meno ufficiali e, quindi, ai giochi che quasi necessariamente ogni giro comporta, il vicedirettore di questa rivista mi ha chiesto di scrivere un pezzo sulla vicenda del grattacielo Intesa-Sanpaolo a Torino, progettato da Renzo Piano.
Ho accettato con notevole imbarazzo, in quanto si tratta di affrontare una questione di grande complessità, dato che molteplici sono gli aspetti che la connotano: da quelli di carattere politico-amministrativo, economico e tecnico-ambientale a quelli, più ardui, che riguardano l’immagine della città e che appartengono alla sfera dell’estetica e del senso dei luoghi, non dimenticando il fatto che la discussione in corso sull’argomento ha assunto aspetti fortemente influenzati da motivi ideologici. Ma, nonostante l’imbarazzo, ho comunque accettato perché, da cittadino, mi sento coinvolto nelle vicende della mia città e, da architetto, nelle questioni che attengono al mio ambito disciplinare, soprattutto se si tratta di questioni di grande rilevanza come questa.
Se è vero che à chaque génération sa ville, ciò è vero in quanto ogni generazione trasforma la propria città in coerenza con il proprio modo di vivere: in questo senso, la storia di una città è la testimonianza materiale della storia di una civiltà. La rispettosa attenzione al patrimonio storico-ambientale è parte integrante della nostra cultura. Lo è perché quel patrimonio costituisce la memoria del nostro passato, fondamentale per dare senso al nostro presente e alle sue prospettive future. Il nostro presente, cioè, è sospeso tra passato e futuro, è in movimento: la negazione del passato nega senso al nostro presente e, quindi, al nostro futuro, ai nostri atti creativi, che sono tali in quanto nascono per risolvere i problemi che oggi ci vengono posti e che, quindi, si presentano necessariamente come innovazioni.
Uno schizzo di Renzo Piano per il grattacielo torinese
Una gelosa custodia museale del passato nega questa possibilità e ciò è quanto di cui si sta discutendo: la refrattarietà al cambiamento, alle trasformazioni, alla contemporaneità propone l’immagine di una società senza prospettive che ha paura del futuro. Ciò, d’altronde, lo sapeva bene anche Filippo Juvarra che, pur relazionandosi attentamente con quanto fatto dai suoi predecessori a Torino, tuttavia, con il suo Palazzo Madama, non esitò a crear scandalo tra i vecchi conservatori.
La vicenda si ripropone a Torino con nuovi e insospettati (?) conservatori. Si è assistito alla nascita, proprio in quegli ambiti socio-culturali che per vocazione ci si aspetterebbe essere più orientati al cambiamento e all’innovazione, di confusi e improvvisati comitati che dichiarano il loro aprioristico no a qualsiasi tipo di trasformazione del paesaggio urbano. Un insieme svariatamente assortito di sedicenti ecologisti, luddisti e intellettuali frustrati, partiti all’attacco del progetto di Piano.
Il carattere ideologico dell’attacco, se è vero che ideologia è falsa coscienza, è messo in chiara luce dal modo che si è scelto per innescarlo: un fotomontaggio in cui una cupa torre fuori scala svetta minacciosa dietro la “sacralità” della Mole Antonelliana. Tale inquietante cartolina, proposta dall’ex assessore Paolo Hutter, rappresenta indubbiamente un autentico traguardo nel campo della disinformazione capziosa. Se il professor Guido Montanari, docente di storia dell’architettura, considera la falsa immagine come opportunamente provocatoria al fine di suscitare una discussione nel merito, ci si può chiedere quale seria discussione possa nascere da un falso “mostro sbattuto in prima pagina”.
Certamente la questione dell’impatto di un progetto sul suo contesto è questione rilevante e può, anzi, deve far discutere, soprattutto se il contesto, come dice Montanari, “vanta scorci visivi straordinari già messi in discussione dalle ultime trasformazioni urbane”. Allora ci si può chiedere: ma dov’erano costoro quando sono stati messi in discussione gli “straordinari scorci visivi” di Torino?
Renzo Piano - The New York Times Building - 2007 - photo Michel Denancé
Perché non si è levato un grido contro lo scempio perpetrato negli ultimi dieci anni nelle grandi aree di trasformazione urbana (ossia le grandi dismissioni della Torino industriale, in particolare quelle dette, nel nuovo Piano Regolatore, Spina 3 e Spina 4, che avrebbero potuto rappresentare un’occasione unica di ristrutturazione della città nel pieno rispetto delle sue strutturali connotazioni morfologiche) e contro lo scempio perpetrato nel cuore stesso del centro storico -a parte la realizzazione di Piazzale Valdo Fusi, per il quale il grido si è levato a cose fatte (ma non l’avevate visto quell’orribile progetto?)- con la sistemazione dell’area archeologica delle Torri Palatine e la realizzazione dell’albergo all’angolo di via Torri Palatine con via della Basilica (un guazzabuglio di cattivo gusto e falso storico): un infelice esito, perpetrato nel più assoluto silenzio, dovuto, certo, al basso profilo culturale che connota le vicende architettoniche torinesi degli ultimi decenni.
Ad avvalorare la tesi che l’opposizione al progetto di Piano sia dettata da motivazioni prevalentemente ideologiche è l’accusa al grattacielo di costituire un simbolo arrogante del potere finanziario. Quel potere, piaccia o non piaccia, indipendentemente dall’intervento edilizio, esiste e comunque garantisce anche posti di lavoro per la città. Si sarebbe preferito un trasferimento a Milano del centro direzionale della Banca? Cosa avrebbero detto i sindacati torinesi?
Sembra pertanto che l’obiezione riguardo l’altezza dell’edificio, più che da ragioni dovute alla considerazione del suo impatto sul panorama urbano, sia piuttosto motivata da ragioni attinenti alla sua valenza simbolica. Il fatto che l’ex sindaco Novelli arrivi ad affermare iperbolicamente che il grattacielo supera la Mole Antonelliana di ben ottanta metri evidenzia essenzialmente una sostanziale insofferenza nel rapporto con la committenza.
Ciò fa perdere completamente di vista il vero oggetto del contendere, che consiste piuttosto nelle questioni di organizzazione funzionale e formale connesse alla realizzazione di un pezzo di città. Il rendering del grattacielo progettato da Renzo PianoQuesti problemi, d’altronde, erano già stati affrontati dal Piano regolatore di Gregotti e Cagnardi: che senso hanno allora le attuali critiche dei redattori del piano? Quello di un tardivo ripensamento, di un’autocritica?
Semmai crea forti perplessità lo spostamento del grattacielo della Regione Piemonte in prossimità del Lingotto, nell’area ex Fiat Avio, sia per i problemi di accessibilità che esso verrà a generare sia perché sarà proprio questo spostamento a produrre una rilevante alterazione del profilo cittadino. Quel profilo, previsto dal Piano regolatore che, sul nuovo asse rettilineo del viale cosiddetto della Spina Centrale, veniva ad assumere una sua forte caratterizzazione con i due grattacieli (di cui uno è quello in discussione) a cavallo del viale e adiacenti alla nuova stazione di Porta Susa, quasi una sorta di portale che così avrebbe incorniciato uno sfondo in cui il grattacielo della Regione costituiva il punto di fuga di una non casualmente definita prospettiva urbana.
E a questo proposito, ben più sostanziale che non qualche metro in più o in meno, le vestali della città non hanno nulla da dire? Invece tutte le critiche si concentrano sull’altezza dell’edificio e così, anziché risolvere il problema fin dall’inizio con il committente dell’opera, si è data la stura, italianamente, alle procedure di varianti (per alzarlo) e di controvarianti (per abbassarlo) ricorrendo anche al funambolico concetto di “altezza virtuale” (ossia quella che non contempla l’esistenza dei volumi tecnici!). Queste furbizie burocratiche, com’era prevedibile, hanno fornito validi strumenti di contestazione agli oppositori del progetto, esasperando ulteriormente un confronto già difficile.
Tutto ciò premesso, forse, è anche il caso di dire qualcosa nel merito del progetto di Renzo Piano. Si tratta di una progettazione attenta, colta e responsabile, e il suo risultato è un edificio (lasciando perdere i simboli altimetrici del potere) che costituisce un tassello urbano ben inserito nella rigida maglia ortogonale di strade, che costituisce il tessuto cittadino, non impedendo, per la sua isolata singolarità, la vista di quegli scorci visivi straordinari che rendono unica questa città. Alto sì, ma ben lontano dalla monoliticità e pesantezza simulate in quella cartolina che ha fatto capolino sulle prime pagine delle cronache torinesi.
Una torre leggera, di quella leggerezza di cui parlava Calvino nella prima delle sue Lezioni americane, che offre viste straordinarie grazie alla frammentazione delle sue superfici e alla sua trasparenza, che permetterà di vedere il parco retrostante da corso Inghilterra. Una torre, che proprio in virtù della sua altezza, permette la realizzazione di un parco, occupando poca superficie. Un edificio che si inserisce bene in un contesto urbano in via di trasformazione, se pur vicino alla città storica, non scimmiottando (come troppo spesso avviene) i banali stilemi di un’architettura “torinese”, ma imponendosi come nuovo fatto urbano, come laboratorio anche dal punto di vista del disegno della città.
Renzo Piano - Ristrutturazione del Lingotto - Torino, 1983-2003
Un laboratorio che è anche laboratorio di sostenibilità urbana grazie a un’attenta e consapevole progettazione tecnologica. L’uso della massa termica dell’edificio, i solai ventilati che permetteranno di rinfrescare naturalmente l’edificio senza l’ausilio di aria condizionata nelle prime ore della giornata, l’uso della doppia pelle che permetterà un maggior comfort termico dell’edificio, l’illuminazione crepuscolare a bassa emissione, le pompe di calore che sfrutteranno l’energia geotermica della falda freatica, i pannelli solari a microcristalli, i pannelli termici per l’acqua sanitaria, i giardini d’inverno (la cosa più bella che abbiano inventato gli inglesi, a detta di Piano) sul lato sud, l’uso di percentuali di acciaio riciclato che arrivano fino al 90%, il continuo riferimento al protocollo Itaca, che considera tutti gli aspetti del bilancio energetico dell’edificio. Ecco le risposte a quelle domande che gli ambientalisti dovrebbero fare: anche questi sono i numeri della torre.
Un edificio che si apre alla città, che non confina i locali tecnici ai piani alti dell’edificio ma, al contrario, li fa diventare uno spazio dell’anima con la terrazza panoramica, la galleria d’arte e il ristorante. Un edificio che offre un nuovo auditorium alla città, che nel giardino inferiore offre altri ristoranti e un asilo. Se tutto ciò rappresenta il potere del committente, si tratta di un potere che comunque si propone, quali che siano le sue finalità, anche di creare urbanità. Guardando il plastico esposto a palazzo Madama, non si può non apprezzare una buona architettura in un bel pezzo di città.
Renzo Piano - Vista aerea del JM. Tjibaou Cultural Center - Noumea, New Caledonia - photo John Gollings
Le ultime notizie del possibile abbassamento della torre non mi fanno tirare un sospiro di sollievo, come invece hanno provocato a qualche ansioso meteorologo da prima serata televisiva, anzi mi preoccupa che si possa perdere ancora una volta una grande occasione. La polemica continua in modo miope, considerando solo i numeri riguardanti l’altezza. Dario Buzzolan ha scritto, sulle pagine torinesi di “La Repubblica” del 10 novembre 2007, il divertente resoconto di una impossibile telefonata tra lui e l’architetto Alessandro Antonelli, in cui chiedeva al progettista della Mole se non gli dava fastidio che si realizzasse un edificio più alto del suo e che a detta di molti rovinerebbe il profilo della città. L’Antonelli risponde: “Bisogna osare, sennò è tutto inutile. Torino non assomiglia a nessun’altra città. Se sarà così anche con quella torre, se non sarà una delle mille torri di cui è costellato il mondo allora possiamo stare tranquilli. La saluto”.
Piano l’ha detto nella Sala rossa del Consiglio comunale: “Guardate che non sono qui perché ho bisogno di lavorare”. Spero che faccia tesoro di quest’affermazione. E che Torino non perda una volta in più l’occasione di produrre qualità.

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andrea preto

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3 Commenti

  1. Il piano regolatore fissa per i tre previsti grattacieli un’altezza massima di 100 metri. Quello di cui si discute è alto il doppio, o quasi. Non è un’inezia e la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta – e le regole non glielo consentono – ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo – che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette. Già questo basterebbe per mettere in discussione la decisione comunale. Eravamo convinti che a Torino, al contrario di quanto succede a Milano, il piano regolatore è vigente e il potere pubblico lo facesse rispettare. Scopriamo adesso che non è così e che Torino subisce il fascino del rito ambrosiano.

    Ancora più importante è il problema della concentrazione di funzioni e, quindi, degli spazi pubblici mancanti che, secondo Diego Novelli, ammonterebbero almeno a otto ettari. Questo spazio non c’è, e allora? Torniamo alla questione del piano regolatore disatteso.

    Ma, secondo me, l’argomento decisivo che impone di rifiutare il progetto di Renzo Piano, è quello che va sotto la voce skyline. Merito indiscusso della cultura italiana della seconda metà del secolo scorso (a partire dalla carta di Gubbio del 1960 a tutta le successive esperienze di recupero urbano) è l’acquisizione del carattere unitario dei centri storici, da proteggere perciò nella loro unitarietà, superando la precedente concezione che li individuava come luoghi di particolare concentrazione di monumenti (da tutelare) immersi in tessuto anodino (disponibile per ogni trasformazione, anche lo sventramento, purché accuratamente “ambientato”). Quell’acquisizione non può essere impunemente accantonata. Mi pare stantio e inutile il tentativo di attualizzare l’opera dell’ ingegner Antonelli al quale non si può attribuire la nostra sensibilità e non si capisce perchè avrebbe dovuto curarsi, dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile).

    Ha scritto lucidamente Antonio Cederna, nelle mirabile premessa a I vandali in casa, che le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della Storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Questo è il punto, questa è la ragione per la quale bisogna opporsi al grattacielo previsto a ridosso del centro storico. La Mole antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella nostra disponibilità di uomini moderni: altro che sostenitori delle pecore in piazza San Carlo, come ha dichiarato il sindaco. I grattacieli, se si vogliono fare, li si faccia nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare.

  2. VITTORIO DEL PIANO (GROTTAGLIE/TARANTO), A PROPOSITO DEL GRATTACIELO (a Torino) DI “Renzo e Lucia” – GROTTAGLIE/TARANTO, 4 aprile, 2008.
    Opporsi al Grattacielo-Renzo Piano- previsto a ridosso del centro storico Torino. Perché intervengo per l’intervento di “Lucia, 03/o4/2008”. Mi pare che la sig.ra “Lucia” non scrive corbellerie. In fine al suo intervento, cita Antonio Cederna (Le dico brava!), che le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della Storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Anche questo è il punto, questa è – una validissima – ma non la sola ragione per la quale – forse – bisogna opporsi al grattacielo. L’immagine della Città (la bella vista con la “Mole antonelliana” con fondale le Alpi), è l’immagine pura che non può essere “obliterata”, ha ragione anche su questo punto Lucia. E’ dal 1973 che vado sostenendo l’idea che: “la città se non è per l’uomo non è città / lo spazio urbano deve essere strutturato esteticamente…”. L’immagine presuppone una lettura con l’intervento della nostra percezione, ed esiste un livello di lettura delle immagini, dei significati profondi e cosa esprimono attraverso le barriere delle diverse culture e nelle varie articolazioni del linguaggio visivo. Vediamo che il mondo contemporaneo presenta una gran quantità di materiali iconografici, una vasta produzione d’immagini è così sotto il nostro sguardo quotidiano, con l’enorme influenza che generano su tutti per le diverse virtù e caratteristiche dell’individuo e secondo la natura propria di molte immagini. Come anche i “segni urbani dell’architettura, dell’arte pura” vettori di sensibilità visibili-, la stessa città – oggi – che non può far “rivivere” l’opera dell’artista nel terzo millennio, per le mutate/mutanti esigenze di quell’arte che, deve tessere quotidiani rapporti con la realtà dell’uomo, nello spazio del cielo, della terra e del mare della sua città, in ogni parte del mondo, senza alterare i processi esistenziali di ogni essere vivente e né aggravare l’esistenza economica ed estetica del presente. Progettare oggi l’“opera” d’arte per farla finire in un “museo” non ha più senso. Concepire l’arte per la coesistenza dell’Uomo e della Città ha senso per il presente e per le generazioni future. Il destino dell’arte, perché esista (non come un quadro-opera) con l’uomo, è farla esistere – (sapendo comunicare l’espressione dell’ “invisibile” con l’immagine… il comunicatore è: l’artista puro) – come “operacittà” coesistere nella Città e “visibile” come tessuto cellulare puro (e cellulamoltiplicata) nel suo “spaziourbano”, proiettandovi (un unicum “materiale” amalgamantesi con le altre arti) la percettibilità pura dell’artista della “Città di Medi-terra-nea” generatrice dello spazio estetico (“operacittà”) del presente e dell’oltre percettivo. Il vettore più puro (e immateriale) possibile, deve essere fortemente collegato all’evolutivo sviluppo dell’afflato spirituale dell’Artista-Puro di “Mediterranea”(Città d’Arte Pura). L’era dei “dispendiosi” musei e anche grattacieli (contenitori, espositori, etc. è finita sin dal ’68, quando Pierre RESTANY chiuse a Parigi le porte della Galleria d’Arte Moderna), è superata – come oggetto e come concetto – e bisogna prenderne coscienza in tutti i sensi, maggiormente ora anche per l’accentuarsi dei caratteristici e chiari segnali di crisi economica provenienti da più parti del mondo e che, ogni prudente e sensibile politica deve poter riconoscere, capire e, inoltre, deve considerare ormai finite tutte le originarie funzioni legate al “museo” (obsoleto) alla città (martoriata dal traffico e dagli inquinamenti anche visivi…), con concetti apparentemente nuovi ma “obsoleti” sono superati per il forte potere della “globalizzazione estetica che è figlia della globalizzazione economica” e ché la potenza dei mediaelettronici è in grado di sviluppare celermente e più soddisfacentemente ogni funzione vecchia e nuova da offrire a ogni grado educativo per la socializzazione di massa all’arte (“Arteidentità”). Per evitarle ogni ulteriore degrado, la stessa potenza espressiva “pura” va utilizzata in tutti gli ambienti inquinati dagli insensibili (imbonitori e falsificatori del gusto estetico puro). Per tenere allenata la sensibilità nel cervello e nel cuore, alla conoscenza dei medium e dei linguaggi espressivi e poetici degli artisti. Lo spazio urbano deve essere strutturato esteticamente per i nuovi apporti percettivi al mondo della Città Contemporanea. Ci vuole la fede profonda della sensibilità mediterranea per la nuova città dell’uomo, che salvaguardi la purezza dell’atto creativo, ne tuteli l’espressività e la comunic/azione “pura”, n’esalti la libertà; bisogna tendere ad un naturalismo estetico nuovo che salvaguardi quella forma d’Arte Pura più vicina all’uomo e che riesca ad essere l’energia di quell’estetica-ideale strutturatesi come “opera” nella Città e con la Città, per far sì che (l’azione sensibile) l’operazione combinata “Arteopera” “Cittaopera” dell’arte pura si formi e si enuclei permanentemente nell’esisten-za dell’uomo e nella vita sociale della sua Città tendente verso l’estetica generalizzata: “Arte-immagine-visibile- espressione dell’in-visibile”/crisi e fine del museo tradizionale. Tendere al “Museocittà”/opera in divenire – “Museopuro-MuseoCittà”/arte da fruire, “Arteopera” /Museo Nuovo-Città Nuova con cui comunicare, “Arte-Pura”/artista-comunicazione-superazione natura cultura, “Spaziourbano”/Museo-arteinvisibile-visibile come architettura-comunic/azione, “Artericerca”/ ricerca della bellezza primordiale della terra madre…, “Arteidentità”/ricerca dell’identità pura smarrita …così mi pare che voglia rifererirsi con sensibilità pura l’intervento di “Lucia” quando scrive: “ grattacieli, se si vogliono fare, li si faccia nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare”. A Renzo Piano, noto architetto, io Vittorio Del Piano, desidero dirgli che io non ce l’ho con quelli che all’università e all’AA.BB.AA. insegnano a ragazzi di vent’anni a diventare artisti. Li lanciano subito verso gesti eclatanti, alla ricerca dell’ispirazione (dell’idea sensibile). Lo trovo non “spaventoso”, ma positivo . Penso invece che, dal punto di vista educativo, sia molto meglio coltivare in loro la curiosità di pensare, ideare e fare opere originali, fornendogli al contempo gli strumenti dell’inventare e non di replicare l’esistente.
    E desidero anche fargli sapere che sono d’accordo con lui quando sostiene: “L’architettura è come un iceberg dove la parte visibile è dieci volte più piccola di quella che non vedi, che dal basso la sostiene. Affonda le sue radici nell’antropologia, nella sociologia, nell’economia, nella scienza, nella storia, nella memoria, e poi ovviamente nella poesia, nell’espressione artistica”, desidero, inoltre, richiamargli alla mente che a Bari per il suo stadio (San Nicola) una vasta zona archeologica è stata d i s t r u t t a dal programma al tempo del suo “progetto” – valido si come idea presa dal Colosseo per le porte uscite-entrate multiple, ma non validamente inserito nella Città…perché? Poteva contenere strutture sociali, culturali del tempo libero ed essere cosi una struttura-urbana anche “dentro la Citta” pur essendo in periferia ecc., comunque rimane un progetto incoerente con la velocità di come va il mondo – del gigantesco stadio utilizzabile solo per le partite di calcio… Però – come non posso essere d’accordo con lui quando dice: “Come la scrittura, anche la città per essere leggera deve essere pensata con una giusta armonia tra spazi costruiti e spazi vuoti, elementi di discontinuità che permettano di alternare segni forti e momenti di silenzio” – anche Lucia e Renzo devono essere d’accordo don me che l’architettura come “Arte-Pura”, deve essere COMUNICAZIONE/ARTE nella “0PERA/Città-” per l’uomo d’oggi e per quelli di domani e vorrei concludere: con un verso del Nobel Salvatore QUASIMODO – “Dalla notte che verrà avrò speranza” – e con una frase di Giulio Carlo ARGAN – “La cosa più bella al mondo è capire” –…Lo spazio urbano va interpretato e non violentato, tutto qui. Facciamo funzionare questa macchina grattacielo rispettando lo spazio urbano…, ma facciamo funzionare anche l’uomo rispettando tutta l’intera Città dell’uomo. Vittorio DEL PIANO – Atelier MediterraneArtePura – (Grottaglie) TARANTO – E-mail: delpiano.artepura@libero.it.

  3. Esimio architetto,
    un brano della Sua lettera suona più o meno così:” … anche questi sono i numeri del grattacielo di Renzo Piano” e nomina la geotermia, i pannelli solari, ecc.ecc. MA MANCANO PROPRIO I NUMERI relativi ai consumi energetici dei grattacieli (posso darLe molti puntatori e link in internet) e soprattutto ai consumi che avrebbe il grattacielo Intesa: sono così ben celati, ma così ben celati, che nessuno li può citare.
    Non mi avventuro sul terreno dell’estetica, anche se a volte mi chiedo come mai né Piano né Fuksas hanno finora costruito grattacieli a Genova e Roma rispettivamente.
    I valori di consumo che ho trovato sono dal 200% al 500% superiori a quelli di “normali” edifici ad uso terziario (espressi in kWh al metro quadro all’anno) e l’incidenza delle “fonti rinnovabili” è piuttosto ridotta.
    Non sono un architetto, sono un Torinese che vivrebbe all’ombra del grattacielo Intesa e non gongolo per questo. Sono MOLTO interessato a sentire da Lei quali sono i fabbisogni energetici ipotizzati per il grattacielo Piano-Intesa; li accetterò volentieri anche espressi in MegaJoule al metro cubo.
    Cordiali saluti.
    Nico Miletto
    (Comitato spontaneo Cit Turin per Torino sostenibile)

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