Come si comprende dal titolo l’artista questa volta si misura con opere di piccolo formato, la cui dimensione non supera il 30x40 cm. La scelta dimensionale potrebbe indurre a interpretare la volontà dell’artista come una diminuzione d’impegno oppure un piegarsi alle esigenze di un mercato in grave affanno. Nulla di tutto questo. Si tratta piuttosto di accettare la sfida a realizzare opere di grande intensità pur nel ristretto campo di piccolissimi supporti. Traspare, anche se non esplicitamente dichiarata, la polemica con l’odierna consuetudine di produrre tele di grande formato atte a richiamare l’attenzione e lo stupore nel pubblico, confondendo spesso la grandezza dimensionale con quella artistica. I temi trattati dalle opere non si discostano da quelli delle precedenti personali; ritornano le architetture, tema caro all’artista, le archeologie industriali, i relitti meccanici e soprattutto la natura intesa non come mimesi ma analizzata nella struttura della forma, a volte radiografata fino alla dimensione molecolare; grovigli di radici e tronchi, rami come arterie disvelano l’istologia della Grande Madre. Non può mancare l’omaggio all’astrattismo da cui l’artista ha preso le mosse e che, a ben vedere, non ha mai abbandonato, convinto che la dicotomia delle categorie astratto-reale non risolve il vero problema della pittura, e dell’arte stessa che risiede nella concretezza della forma. Forse il crimine della modernità è stato la dissoluzione della forma sull’altare del concetto. Questa scelta ha prodotto l’arte più noiosa che la storia ricordi, e l’equivoco paradossale in cui ancora ci arrovelliamo.