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Tracey Moffatt – Between Dreams and Reality
oltre 120 fotografie più diversi film realizzati dalla Moffatt a partire dal 1989
Comunicato stampa
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Si inaugura martedì 27 giugno allo Spazio Oberdan di Milano la prima grande mostra italiana dell’artista australiana Tracey Moffatt (Brisbane, 1960). La retrospettiva (promossa dalla Provincia di Milano e dal Museo di Fotografia Contemporanea) curata da Filippo Maggia, raccoglie oltre 120 fotografie più diversi film realizzati dalla Moffatt a partire dal 1989.
“Making art is quite therapeutic”, ha detto una volta Tracey Moffatt parlando di sé. Questo breve assunto rivela molto della personalità dell’artista e soprattutto del suo modo di interpretare l’esperienza artistica, pratica che sovente si riferisce a storie e vicende personali.
Di origini aborigene, ma cresciuta in una famiglia bianca cui era stata data in affido secondo la politica dell’epoca, Tracey Moffatt si lascia affascinare velocemente dalla cultura pop che caratterizza il clima di quegli anni. Immagini tratte da riviste, cinema e televisione iniziano a costituire quell’universo simbolico che diventerà un punto di riferimento nella maggior parte dei suoi lavori, accanto al tema sempre presente e in parte autobiografico della ghettizzazione-segregazione vissuta e intesa in tutti i suoi aspetti: razziali, sociali, sessuali.
Ricordi infantili tornano alla memoria mescolandosi alla cultura di massa, alla cultura dominante nel nostro tempo, e non vi è più differenza. Tutto si confonde in un racconto poco lineare costruito su più livelli narrativi ed emotivi. Si colgono gli elementi di una storia, ma non il filo che li unisce. I racconti fotografici della Moffatt vivono anche di quei vuoti che dividono un’immagine dall’altra.
In uno dei suoi primi lavori, la serie “Something More” (1989) una ragazza indigena che desidera “qualcosa di più” del lotto di terra in cui è costretta a vivere si veste con abiti che non le appartengono: poi la narrazione salta, per riprendersi e concludersi con la protagonista distesa su una strada che si perde all’orizzonte, emblematica e unica via di fuga. I colori sono forti, finti come scene allestite intenzionalmente per un set cinematografico. Vi è autobiografismo, ma è nello stesso tempo negato ed esaltato dalla finzione che torna ossessiva e invadente nei lavori dell’artista. Così pure in “Night Cries: a Rural Tragedy” del 1990, in cui il racconto di una donna di colore di mezza età resa schiava dalla madre bianca viene messo in gioco dall’atmosfera surreale che lo avvolge.
Le venticinque fotografie che costituiscono “Up in the Sky” (1997) portano alle estreme conseguenze questo clima: una madre/Madonna, una bambina aborigena, uomini e donne che lottano. Intorno, il deserto. I colori assordanti riportano alla mente “Zabriskie Point” di Antonioni, ma anche la sensazione di solitudine disperata che fa da sfondo al “Deserto dei Tartari” di Buzzati. Sequenze interrotte, evocazioni. Eppure ogni cosa è bloccata, razionalmente organizzata e poi visivamente ricostruita.
Quasi ironicamente, in “Scarred for Life” (1994) l’artista crea immagini che volutamente imitano la qualità e la composizione delle riviste degli Anni Sessanta per parlare dell’infanzia e di conseguenza della violenza domestica, della sessualità e dei problemi razziali. Sono tematiche forti, ma ogni situazione diventa particolarmente drammatica proprio perché raccontata con uno stile documentaristico da rivista scandalistica, condito con disarmante indifferenza, che finisce per ridurre ogni disgrazia ad una tragica, universale uguaglianza.
Ancora l’emarginazione, anche se in altro contesto, in una serie più recente, “Forth” (2001) in cui l’artista ritrae la disperazione degli atleti arrivati quarti alle Olimpiadi di Sidney del 2000. Non immagini realistiche, bensì immagini spiccatamente pittoriche in cui l’elemento descrittivo viene messo in gioco a favore di quello coreografico ed evocativo.
In uno dei suoi ultimi lavori, “Adventure Series” del 2004, la Moffatt torna a sfruttare il linguaggio dei media, le loro convenzioni - così come aveva fatto la Pop Art. Reinventa attraverso la fotografia “The Flying Doctor”, un fumetto comico all’epoca pubblicato dai quotidiani australiani. Ancora una volta, storia personale, cultura popolare e tematiche sociali si confondono e confluiscono forse più che mai nell’ultima serie dell’artista, “Under the Sign of Scorpio” (2005) in cui la finzione diventa travestimento e la donna – “sesso debole” – viene rappresentata e rivalutata attraverso icone femminili che hanno segnato la storia. Tracey Moffatt diventa Georgia O’Keffee, Indira Gandhi, Catherine Deneuve, tutte le donne nate, come lei, sotto il segno dello scorpione. Le reinterpreta trasformando nuovamente il suo vissuto, il suo sentire, in arte.
“Making art is quite therapeutic”, ha detto una volta Tracey Moffatt parlando di sé. Questo breve assunto rivela molto della personalità dell’artista e soprattutto del suo modo di interpretare l’esperienza artistica, pratica che sovente si riferisce a storie e vicende personali.
Di origini aborigene, ma cresciuta in una famiglia bianca cui era stata data in affido secondo la politica dell’epoca, Tracey Moffatt si lascia affascinare velocemente dalla cultura pop che caratterizza il clima di quegli anni. Immagini tratte da riviste, cinema e televisione iniziano a costituire quell’universo simbolico che diventerà un punto di riferimento nella maggior parte dei suoi lavori, accanto al tema sempre presente e in parte autobiografico della ghettizzazione-segregazione vissuta e intesa in tutti i suoi aspetti: razziali, sociali, sessuali.
Ricordi infantili tornano alla memoria mescolandosi alla cultura di massa, alla cultura dominante nel nostro tempo, e non vi è più differenza. Tutto si confonde in un racconto poco lineare costruito su più livelli narrativi ed emotivi. Si colgono gli elementi di una storia, ma non il filo che li unisce. I racconti fotografici della Moffatt vivono anche di quei vuoti che dividono un’immagine dall’altra.
In uno dei suoi primi lavori, la serie “Something More” (1989) una ragazza indigena che desidera “qualcosa di più” del lotto di terra in cui è costretta a vivere si veste con abiti che non le appartengono: poi la narrazione salta, per riprendersi e concludersi con la protagonista distesa su una strada che si perde all’orizzonte, emblematica e unica via di fuga. I colori sono forti, finti come scene allestite intenzionalmente per un set cinematografico. Vi è autobiografismo, ma è nello stesso tempo negato ed esaltato dalla finzione che torna ossessiva e invadente nei lavori dell’artista. Così pure in “Night Cries: a Rural Tragedy” del 1990, in cui il racconto di una donna di colore di mezza età resa schiava dalla madre bianca viene messo in gioco dall’atmosfera surreale che lo avvolge.
Le venticinque fotografie che costituiscono “Up in the Sky” (1997) portano alle estreme conseguenze questo clima: una madre/Madonna, una bambina aborigena, uomini e donne che lottano. Intorno, il deserto. I colori assordanti riportano alla mente “Zabriskie Point” di Antonioni, ma anche la sensazione di solitudine disperata che fa da sfondo al “Deserto dei Tartari” di Buzzati. Sequenze interrotte, evocazioni. Eppure ogni cosa è bloccata, razionalmente organizzata e poi visivamente ricostruita.
Quasi ironicamente, in “Scarred for Life” (1994) l’artista crea immagini che volutamente imitano la qualità e la composizione delle riviste degli Anni Sessanta per parlare dell’infanzia e di conseguenza della violenza domestica, della sessualità e dei problemi razziali. Sono tematiche forti, ma ogni situazione diventa particolarmente drammatica proprio perché raccontata con uno stile documentaristico da rivista scandalistica, condito con disarmante indifferenza, che finisce per ridurre ogni disgrazia ad una tragica, universale uguaglianza.
Ancora l’emarginazione, anche se in altro contesto, in una serie più recente, “Forth” (2001) in cui l’artista ritrae la disperazione degli atleti arrivati quarti alle Olimpiadi di Sidney del 2000. Non immagini realistiche, bensì immagini spiccatamente pittoriche in cui l’elemento descrittivo viene messo in gioco a favore di quello coreografico ed evocativo.
In uno dei suoi ultimi lavori, “Adventure Series” del 2004, la Moffatt torna a sfruttare il linguaggio dei media, le loro convenzioni - così come aveva fatto la Pop Art. Reinventa attraverso la fotografia “The Flying Doctor”, un fumetto comico all’epoca pubblicato dai quotidiani australiani. Ancora una volta, storia personale, cultura popolare e tematiche sociali si confondono e confluiscono forse più che mai nell’ultima serie dell’artista, “Under the Sign of Scorpio” (2005) in cui la finzione diventa travestimento e la donna – “sesso debole” – viene rappresentata e rivalutata attraverso icone femminili che hanno segnato la storia. Tracey Moffatt diventa Georgia O’Keffee, Indira Gandhi, Catherine Deneuve, tutte le donne nate, come lei, sotto il segno dello scorpione. Le reinterpreta trasformando nuovamente il suo vissuto, il suo sentire, in arte.
27
giugno 2006
Tracey Moffatt – Between Dreams and Reality
Dal 27 giugno al primo ottobre 2006
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
SPAZIO OBERDAN – CINETECA
Milano, Viale Vittorio Veneto, 2, (Milano)
Milano, Viale Vittorio Veneto, 2, (Milano)
Biglietti
intero € 4,10, ridotto € 2,70 – gruppi scolastici € 1,50
ingresso libero il primo martedì del mese
Orario di apertura
tutti i giorni 10-19.30, martedì e giovedì fino alle 22, chiuso il lunedì
Vernissage
27 Giugno 2006, ore 18.30
Sito web
www.museofotografiacontemporanea.org
Editore
SKIRA
Autore
Curatore