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Remo Bianco – Al di là dell’oro
Mostra antologica di Remo Bianco (1922-1988)
Comunicato stampa
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Remo Bianco (Milano 1922-1988) dopo trent’anni torna a Roma con una grande mostra, circa 110 opere, che raccoglie quasi tutti i suoi cicli creativi, ma si concentra soprattutto sui cicli dei Tridimensionali, dei Collage e dei Tableaux doré.
Nelle opere figurative Bianco dimostra di aver meditato su Cézanne (come ne L’operaio malato, 1948, opera inmostra), ma soprattutto di aver appreso la lezione di Picasso (il Picasso di Parade, di Guernica o de La Pesca di Antibes) e di Rouault. Nel 1937 s’iscrive ai corsi serali dell’Accademia di Brera, dove nel 1939 conosce De Pisis, che Bianco ha sempre considerato come un Maestro.
Accanto alle pitture figurative, nel 1948, Bianco comincia i primi esperimenti tridimensionali che chiama semplicemente 3D: dapprima figure geometriche disegnate su pannelli plastici sovrapposti (in mostra ne sono previsti una decina) e poi solo pannelli di legno, di metallo o di plexiglas sagomati, colorati e sovrapposti. Di questo ciclo saranno esposti una quindicina di esemplari, alcuni dei quali di grande formato e particolarmente interessanti. Inoltre, occorre dire che con questi lavori Bianco anticipa i Teatrini dell’amico Fontana e inaugura un percorso che ben presto sarà seguito da molti altri.
All’inizio degli anni cinquanta appartengano i primi lavori di pittura Spaziale e Nucleare (anche questi significativamente rappresentati con pezzi di alto livello). Con questa definizione Bianco indica sia una serie di opere realizzate con smalti e colle, prima colati e poi rappresi in modo da creare suggestivi effetti erosivi, sia telai riempiti con un colore denso e materico, nel quale affoga oggetti di vario tipo, a formare curiose orogenesi e imprevedibili contrasti materici. I Nucleari possono essere dunque figurativi, come le belle teste in mostra oppure completamente dominati dalla materia, che, come una colata lavica, inghiotte e rapprende ogni più piccolo frammento. Le pitture Spaziali sono carte o tele su cui si liberano pennellate, segni e macchie di colore e dalle quali trae spesso dei calchi speculari. Bianco la chiama “pittura suggestiva” e spesso nasce da un meccanismo simile a quello delle macchie di Rorschach, ma a queste Bianco aggiunge via via punti, pennellate virgolettate, linee curve incrociate, segni zigzaganti e lineari archi stereometrici, cioè il medesimo corredo iconografico che utilizzerà, tra qualche anno, nei primi Assemblage (di cui in mostra sono esposti alcuni esemplari).
Nel 1955 Bianco va a New York, vede per la prima volta una mostra di Burri, vede il lavoro di Franza Kline, ma soprattutto conosce Pollock. Al suo ritorno comincia uno dei cicli più numerosi della sua produzione: i Collage (in mostra ve ne saranno una quindicina).
Dopo essersi abbandonato al colore, a pennellate libere e improvvisate, Bianco ritaglia le superfici di quelle catarsi in ordinati quadrati e rettangoli e li ricompone mescolandoli tra loro in una scansione ritmico-spaziale che ricorda le tessere di un mosaico, quei bei mosaici orientali carichi di magia: “Mi interessava – ha confessato Bianco- di ricostruire a “freddo” quella “calda” pittura nata dall’emotività del gesto. […] Si trattava di tagliare la tela dipinta in tanti quadratini e di conservare le parti che mi interessavano di più e ricomporre poi questa tela, che diventava come una specie, così, di scacchiera, dove tutte queste forme risultavano spezzate” . Poi quelle superfici sono diventate dei volumi solidi (parallelepipedi o spirali ascendenti che Bianco chiama Pagode, alcuni degli esemplari più belli sono in mostra).
“Io non credo in una verità, ma in molte verità che ne fanno una”, ha scritto Bianco “i collages hanno questo senso: sono particolari di un tutto, rappresentano una verità”.
Intanto, a un anno di distanza dall’inizio dei Collage, Bianco avvia la serie in assoluto più fortunata (e più numerosa) di tutta la sua produzione: i Tableaux dorés. “Nel 1957, a Milano, dopo aver coperto con un monocolore la superficie di un collage, applicavo dei foglietti di oro zecchino. Il quadro veniva poi nuovamente dipinto a due colori, quasi come un araldismo. Questi quadri sono forse la più lunga esperienza continuata fra le mie ricerche”. Ne saranno esposti una trentina, alcuni dei quali raggiungono i tre metri di lunghezza e i due di altezza.
La mostra prosegue poi con le Appropriazioni: poster su cui stende i quadrati di foglia d’oro, ma anche oggetti che chiude in teche e spolvera di neve (Sculture neve, di cui in mostra c’è una bella selezione) e Bandiere decorate con foglia d’oro (eletta a logo distintivo dell’artista) che infigge e fa sventolare nei luoghi più disparati, fotografie che manipola inserendovi colori e segni.
Saranno esposti anche alcuni esempi di Impronte: calchi in carta o in gesso di piccole cose quotidiane, oggetti minimali e di scarso valore, allo scopo di fissarli, se non nella mente, almeno nel gesso, per ritrovarli ogni qualvolta si ha bisogno di ripercorrere i giorni ormai vissuti, ogni volta che si è in cerca di un po’ di commozione.
Fanno parte delle anche i Sacchettini-Testimonianze (i primi datano 1954), accumuli di piccoli oggetti, ricordi infinitesimali dei minuti giornalieri, minuziosamente imbustati, chiusi e allineati, come i giorni di un calendario, come moderni erbari metropolitani su superfici totalmente monocrome o su fondi lignei lasciati grezzi.
Per lo più sono oggetti inutili, cose trascurabili, materiali di scarto, vecchi, consunti, dimenticati, ma, come dice l’artista, “con un aspetto molto poetico” perché sono tracce raccattate qua e là lungo il cammino della vita. “Io volevo ricostruire parte della mia vita, quasi tutti questi oggetti erano miei, appartenuti a me, alla mia infanzia. Poi ho collegato questo problema agli altri, ricostruendo attraverso questi oggetti la vita dell’uomo, raccontando proprio ciò che era avvenuto attraverso l’incontro con gli altri in una giornata”. Quell’imbustare, in un sommario e approssimativo tentativo di catalogazione; quell’imprigionare le cose tra il gesso (come blocchi di ambra bianca) e quel continuo duplicare sagome prelevate dalla vita hanno solo uno scopo o, se si preferisce, una romantica illusione: non dimenticare. Ed è proprio attorno a questo che gira tutta la ricerca di Bianco: la memoria, quell’interminabile stratificazione di ricordi e di pensieri che si accumula in una vita. Ma a Bianco interessa non perdere nemmeno un solo secondo di questo racconto, neanche il più piccolo e insignificante brandello di materia, perché dal particolare si può arrivare al tutto e anche l’infinitamente piccolo può contenere in sé l’idea del tutto perché ne è parte generante.
Dai primi dipinti degli anni quaranta, fino all’ultimo ciclo dell’Arte Elementare, passando per l’Arte Nucleare, l’Arte Improntale e le Sculture Viventi, la sua ricerca si è rivelata come un continuo desiderio narrativo, un insopprimibile bisogno di far sapere, di testimoniare, prima di tutto a se stesso e poi agli altri, ciò che avviene in ogni spicciolo di vita prima che ogni secondo vada perduto per sempre. Così, gesti insignificanti, cataloghi di cose piccole e senza valore (un mozzicone, il braccio di una bambola, la carta di un cioccolatino) grazie a Bianco acquistano una posizione primaria, ottengono l’attenzione del mondo. “La mia natura –riconosce l’artista- è una specie di negozio per le vendite al dettaglio, mi concentro piuttosto sul frammento, o per natura o per mancanza di mezzi”.
Nelle opere figurative Bianco dimostra di aver meditato su Cézanne (come ne L’operaio malato, 1948, opera inmostra), ma soprattutto di aver appreso la lezione di Picasso (il Picasso di Parade, di Guernica o de La Pesca di Antibes) e di Rouault. Nel 1937 s’iscrive ai corsi serali dell’Accademia di Brera, dove nel 1939 conosce De Pisis, che Bianco ha sempre considerato come un Maestro.
Accanto alle pitture figurative, nel 1948, Bianco comincia i primi esperimenti tridimensionali che chiama semplicemente 3D: dapprima figure geometriche disegnate su pannelli plastici sovrapposti (in mostra ne sono previsti una decina) e poi solo pannelli di legno, di metallo o di plexiglas sagomati, colorati e sovrapposti. Di questo ciclo saranno esposti una quindicina di esemplari, alcuni dei quali di grande formato e particolarmente interessanti. Inoltre, occorre dire che con questi lavori Bianco anticipa i Teatrini dell’amico Fontana e inaugura un percorso che ben presto sarà seguito da molti altri.
All’inizio degli anni cinquanta appartengano i primi lavori di pittura Spaziale e Nucleare (anche questi significativamente rappresentati con pezzi di alto livello). Con questa definizione Bianco indica sia una serie di opere realizzate con smalti e colle, prima colati e poi rappresi in modo da creare suggestivi effetti erosivi, sia telai riempiti con un colore denso e materico, nel quale affoga oggetti di vario tipo, a formare curiose orogenesi e imprevedibili contrasti materici. I Nucleari possono essere dunque figurativi, come le belle teste in mostra oppure completamente dominati dalla materia, che, come una colata lavica, inghiotte e rapprende ogni più piccolo frammento. Le pitture Spaziali sono carte o tele su cui si liberano pennellate, segni e macchie di colore e dalle quali trae spesso dei calchi speculari. Bianco la chiama “pittura suggestiva” e spesso nasce da un meccanismo simile a quello delle macchie di Rorschach, ma a queste Bianco aggiunge via via punti, pennellate virgolettate, linee curve incrociate, segni zigzaganti e lineari archi stereometrici, cioè il medesimo corredo iconografico che utilizzerà, tra qualche anno, nei primi Assemblage (di cui in mostra sono esposti alcuni esemplari).
Nel 1955 Bianco va a New York, vede per la prima volta una mostra di Burri, vede il lavoro di Franza Kline, ma soprattutto conosce Pollock. Al suo ritorno comincia uno dei cicli più numerosi della sua produzione: i Collage (in mostra ve ne saranno una quindicina).
Dopo essersi abbandonato al colore, a pennellate libere e improvvisate, Bianco ritaglia le superfici di quelle catarsi in ordinati quadrati e rettangoli e li ricompone mescolandoli tra loro in una scansione ritmico-spaziale che ricorda le tessere di un mosaico, quei bei mosaici orientali carichi di magia: “Mi interessava – ha confessato Bianco- di ricostruire a “freddo” quella “calda” pittura nata dall’emotività del gesto. […] Si trattava di tagliare la tela dipinta in tanti quadratini e di conservare le parti che mi interessavano di più e ricomporre poi questa tela, che diventava come una specie, così, di scacchiera, dove tutte queste forme risultavano spezzate” . Poi quelle superfici sono diventate dei volumi solidi (parallelepipedi o spirali ascendenti che Bianco chiama Pagode, alcuni degli esemplari più belli sono in mostra).
“Io non credo in una verità, ma in molte verità che ne fanno una”, ha scritto Bianco “i collages hanno questo senso: sono particolari di un tutto, rappresentano una verità”.
Intanto, a un anno di distanza dall’inizio dei Collage, Bianco avvia la serie in assoluto più fortunata (e più numerosa) di tutta la sua produzione: i Tableaux dorés. “Nel 1957, a Milano, dopo aver coperto con un monocolore la superficie di un collage, applicavo dei foglietti di oro zecchino. Il quadro veniva poi nuovamente dipinto a due colori, quasi come un araldismo. Questi quadri sono forse la più lunga esperienza continuata fra le mie ricerche”. Ne saranno esposti una trentina, alcuni dei quali raggiungono i tre metri di lunghezza e i due di altezza.
La mostra prosegue poi con le Appropriazioni: poster su cui stende i quadrati di foglia d’oro, ma anche oggetti che chiude in teche e spolvera di neve (Sculture neve, di cui in mostra c’è una bella selezione) e Bandiere decorate con foglia d’oro (eletta a logo distintivo dell’artista) che infigge e fa sventolare nei luoghi più disparati, fotografie che manipola inserendovi colori e segni.
Saranno esposti anche alcuni esempi di Impronte: calchi in carta o in gesso di piccole cose quotidiane, oggetti minimali e di scarso valore, allo scopo di fissarli, se non nella mente, almeno nel gesso, per ritrovarli ogni qualvolta si ha bisogno di ripercorrere i giorni ormai vissuti, ogni volta che si è in cerca di un po’ di commozione.
Fanno parte delle anche i Sacchettini-Testimonianze (i primi datano 1954), accumuli di piccoli oggetti, ricordi infinitesimali dei minuti giornalieri, minuziosamente imbustati, chiusi e allineati, come i giorni di un calendario, come moderni erbari metropolitani su superfici totalmente monocrome o su fondi lignei lasciati grezzi.
Per lo più sono oggetti inutili, cose trascurabili, materiali di scarto, vecchi, consunti, dimenticati, ma, come dice l’artista, “con un aspetto molto poetico” perché sono tracce raccattate qua e là lungo il cammino della vita. “Io volevo ricostruire parte della mia vita, quasi tutti questi oggetti erano miei, appartenuti a me, alla mia infanzia. Poi ho collegato questo problema agli altri, ricostruendo attraverso questi oggetti la vita dell’uomo, raccontando proprio ciò che era avvenuto attraverso l’incontro con gli altri in una giornata”. Quell’imbustare, in un sommario e approssimativo tentativo di catalogazione; quell’imprigionare le cose tra il gesso (come blocchi di ambra bianca) e quel continuo duplicare sagome prelevate dalla vita hanno solo uno scopo o, se si preferisce, una romantica illusione: non dimenticare. Ed è proprio attorno a questo che gira tutta la ricerca di Bianco: la memoria, quell’interminabile stratificazione di ricordi e di pensieri che si accumula in una vita. Ma a Bianco interessa non perdere nemmeno un solo secondo di questo racconto, neanche il più piccolo e insignificante brandello di materia, perché dal particolare si può arrivare al tutto e anche l’infinitamente piccolo può contenere in sé l’idea del tutto perché ne è parte generante.
Dai primi dipinti degli anni quaranta, fino all’ultimo ciclo dell’Arte Elementare, passando per l’Arte Nucleare, l’Arte Improntale e le Sculture Viventi, la sua ricerca si è rivelata come un continuo desiderio narrativo, un insopprimibile bisogno di far sapere, di testimoniare, prima di tutto a se stesso e poi agli altri, ciò che avviene in ogni spicciolo di vita prima che ogni secondo vada perduto per sempre. Così, gesti insignificanti, cataloghi di cose piccole e senza valore (un mozzicone, il braccio di una bambola, la carta di un cioccolatino) grazie a Bianco acquistano una posizione primaria, ottengono l’attenzione del mondo. “La mia natura –riconosce l’artista- è una specie di negozio per le vendite al dettaglio, mi concentro piuttosto sul frammento, o per natura o per mancanza di mezzi”.
07
dicembre 2006
Remo Bianco – Al di là dell’oro
Dal 07 dicembre 2006 al 15 gennaio 2007
arte contemporanea
Location
COMPLESSO DEL VITTORIANO
Roma, Via Di San Pietro In Carcere, (Roma)
Roma, Via Di San Pietro In Carcere, (Roma)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 9,30 alle 17,30
Vernissage
7 Dicembre 2006, ore 18.30
Editore
SILVANA EDITORIALE
Autore
Curatore