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Carlo Levi e Roma. Il respiro della città
Una mostra che racconta il rapporto tra Levi e Roma attraverso il confronto tra le sue opere e quelle degli artisti della Scuola Romana
Comunicato stampa
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Dopo le personali dedicate ad Antonietta Raphaël Mafai e a Scipione, il Casino dei Principi di Villa Torlonia prosegue il suo eccezionale racconto dell’arte romana tra gli anni ’20 e gli anni ’50 con la mostra Carlo Levi e Roma. “Il respiro della città”. L’esposizione, aperta al pubblico dal 27 febbraio al 15 giugno 2008, è promossa da Comune di Roma Assessorato alle Politiche Culturali, Regione Lazio, Provincia di Roma, Fondazione Carlo Levi e Archivio della Scuola Romana. La cura è di Daniela Fonti, l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura, il catalogo di Palombi Editore.
In un percorso che raccoglie 46 dipinti di Carlo Levi (dal 1926 al 1954) e 28 dipinti di diversi artisti della Scuola Romana (tra cui Pirandello, Mafai, Scipione, Trombadori, Afro, Ferrazzi, Scialoja, Melli e Capogrossi), la mostra racconta l’opera dell’artista e intellettuale torinese da un punto di vista inedito. Partendo dai lavori precedenti al 1930, un periodo nel quale Levi si trova inserito nel gruppo dei “Sei di Torino”, mette a confronto la sua pittura degli anni Trenta e Quaranta con quella degli artisti che incontra a Roma proprio in quegli anni.
Nel 1931 Levi espone alla Galleria di Roma di Pier Maria Bardi e alla I Quadriennale romana. In questa occasione deve aver colto il profondo mutamento in atto nella cultura artistica della città, dove cominciavano ad apparire personalità, giovani, che non avevano nulla a che fare con la retorica di un formale ritorno alle tradizioni italiche, ma che invece ricercavano nella pittura, e nella scultura, valori autentici, soggetti affrontati nella loro espressività più profonda.
A Roma la sua pittura cambia, si allontana dal clima chiarista dei “Sei” e innesta nuove suggestioni, stavolta romane, nella cultura pittorica internazionale assorbita a Parigi (dove soggiorna più volte tra il ’21 e il ’41 per i suoi contatti con i fratelli Rosselli e per l’adesione al gruppo di Giustizia e Libertà). La sua arte registra un rafforzamento del timbro cromatico ed un irrobustimento della pennellata in direzione progressivamente più visionaria.
Nelle nature morte gli oggetti si distaccano dalle limpide trasparenze dei fondi passando dalla predominanza dei toni perlacei evidente in Mattino (1929) all’uso di toni più accesi ed “espressionisti” come in Natura morta con melograni, Natura morta con bottiglia, Il frutto rosso (1930). Quelle realizzate tra il ’32 e il ’33, invece, sono facilmente paragonabili alla dinamicità delle nature morte scipioniane, una dinamicità che viene accentuata da Levi anche grazie all’ispessimento delle paste (Talco e biscotti, 1932 e Amoroso contrario di Morandi, 1937) e alle pennellate dall’andamento ondoso.
Al contempo le vedute diventano sempre soggettive e visionarie: basti pensare alle atmosfere de Il paesaggio romano con archi in rosso (1931) che ricorda le contemporanee rappresentazioni della città di Mafai e Scipione.
La pittura di Levi e quella della Scuola Romana (pur nelle differenze dei diversi artisti che ne fanno parte) possono essere accostate per la coincidenza delle tematiche ma, soprattutto, per la ricerca di un realismo non puramente illustrativo, un realismo basato piuttosto sull’immediatezza del sentimento e sulla semplicità della percezione. Due mondi che avevano in comune anche la volontà di collocarsi nel presente vivo e attuale rifiutando scuole e accademie.
Dagli anni ’30 in poi, invece, non si notano significativi scarti stilistici nell’opera leviana. La sua pittura resta collocata nell’orizzonte del “naturalismo essenziale” che lui stesso teorizza in un testo del ’32, rimasto inedito fino ad oggi. Qui afferma che la sua non è una pittura razionale, bensì il risultato di un approccio puramente intuitivo alla realtà, una pittura “comprensibile per sola via del sentimento” perché da lì prende vita.
Soprattutto nei ritratti - a cui si è dedicato con costanza nel corso di tutta la vita - emerge il suo rapporto completamente soggettivo con il mondo. Per Levi ogni ritratto nasce da un primo rispecchiamento di sé e solo in un secondo momento passa alla scoperta del carattere e della fisionomia del soggetto. Di conseguenza ritratti e autoritratti altro non sono che differenti prese di coscienza dell’io rispetto all’altro da sé. In mostra è possibile ammirare, oltre agli straordinari autoritratti, il Ritratto di Moravia (1932), il Ritratto di Leone Ginzburg (1933), il Ritratto di De Pisis (1933), il Ritratto di Anna Magnani (1954).
Non solo la pittura ma la stessa vita dell’artista furono profondamente segnate dal carcere (a Roma, a Regina Coeli) e dal confino in Lucania, un mondo dove le donne, scrisse, “sanno falciare il grano ma non sanno il sorriso”. Le persone ritratte ora non gli appartengono, fanno parte di un mondo distante che egli sente “immerso nella verità” e che rappresenta in un vortice espressionista e febbrile.
Durante la guerra Levi reagisce ricercando, attraverso al pittura, la realtà vicina, le persone amate, i colleghi che emergono con più forza e solidità plastica dal fondo, spesso immersi in un’atmosfera malinconica che è non rassegnazione ma consapevolezza del presente; le nature morte di questo periodo sono, invece, metafore di un mondo travolto dalla tragedia e presentimento di morte.
Dopo la guerra si trasferisce definitivamente a Roma e qui ricompone i diversi volti della sua attività: la pittura, la letteratura e la politica (nel ’63 sarà anche Senatore della Repubblica).
All’interno della polemica tra astrattisti e neorealisti si schiera in campo neorealista. In una riflessione del ’42 dal titolo Paura della pittura, dichiarava infatti: “ma questa, di dare realtà, di aggiungere agli aspetti del mondo la categoria della realtà e dell’esistenza, il loro nome, la loro forma, è sempre stata la natura stessa dell’arte: la sua necessità, il suo valore esistenziale”.
In questa, che è probabilmente una fase meno creativa della sua pittura, la letteratura raggiunge i suoi vertici: nel ’45 pubblica Cristo si è fermato ad Eboli e nel ’50 L’orologio, dedicato ai primi mesi di permanenza a Roma nell’immediato dopoguerra.
Nel corso della mostra sarà presentato un documentario realizzato dall’Ufficio Produzioni Multimediali del Museo di Roma in Trastevere a cura di Marco Fabiano. Il video si avvale del contributo di Daniela Fonti che illustra il legame di Carlo Levi con Roma e con l’ambiente culturale e artistico della città.
Carlo Levi e Roma. “Il respiro della città”, quindi, mettendo a confronto le opere di Levi con quelle dei suoi contemporanei, nel passaggio dal clima del Novecento a quello angosciato della guerra, è una mostra che racconta la profonda esigenza di rinnovamento della cultura artistica del tempo, un’esigenza espressa non soltanto attraverso la ricerca di nuovi ideali estetici ma anche manifestando nelle opere un penetrante sentimento di comprensione e condivisione della sorte dell’uomo.
In un percorso che raccoglie 46 dipinti di Carlo Levi (dal 1926 al 1954) e 28 dipinti di diversi artisti della Scuola Romana (tra cui Pirandello, Mafai, Scipione, Trombadori, Afro, Ferrazzi, Scialoja, Melli e Capogrossi), la mostra racconta l’opera dell’artista e intellettuale torinese da un punto di vista inedito. Partendo dai lavori precedenti al 1930, un periodo nel quale Levi si trova inserito nel gruppo dei “Sei di Torino”, mette a confronto la sua pittura degli anni Trenta e Quaranta con quella degli artisti che incontra a Roma proprio in quegli anni.
Nel 1931 Levi espone alla Galleria di Roma di Pier Maria Bardi e alla I Quadriennale romana. In questa occasione deve aver colto il profondo mutamento in atto nella cultura artistica della città, dove cominciavano ad apparire personalità, giovani, che non avevano nulla a che fare con la retorica di un formale ritorno alle tradizioni italiche, ma che invece ricercavano nella pittura, e nella scultura, valori autentici, soggetti affrontati nella loro espressività più profonda.
A Roma la sua pittura cambia, si allontana dal clima chiarista dei “Sei” e innesta nuove suggestioni, stavolta romane, nella cultura pittorica internazionale assorbita a Parigi (dove soggiorna più volte tra il ’21 e il ’41 per i suoi contatti con i fratelli Rosselli e per l’adesione al gruppo di Giustizia e Libertà). La sua arte registra un rafforzamento del timbro cromatico ed un irrobustimento della pennellata in direzione progressivamente più visionaria.
Nelle nature morte gli oggetti si distaccano dalle limpide trasparenze dei fondi passando dalla predominanza dei toni perlacei evidente in Mattino (1929) all’uso di toni più accesi ed “espressionisti” come in Natura morta con melograni, Natura morta con bottiglia, Il frutto rosso (1930). Quelle realizzate tra il ’32 e il ’33, invece, sono facilmente paragonabili alla dinamicità delle nature morte scipioniane, una dinamicità che viene accentuata da Levi anche grazie all’ispessimento delle paste (Talco e biscotti, 1932 e Amoroso contrario di Morandi, 1937) e alle pennellate dall’andamento ondoso.
Al contempo le vedute diventano sempre soggettive e visionarie: basti pensare alle atmosfere de Il paesaggio romano con archi in rosso (1931) che ricorda le contemporanee rappresentazioni della città di Mafai e Scipione.
La pittura di Levi e quella della Scuola Romana (pur nelle differenze dei diversi artisti che ne fanno parte) possono essere accostate per la coincidenza delle tematiche ma, soprattutto, per la ricerca di un realismo non puramente illustrativo, un realismo basato piuttosto sull’immediatezza del sentimento e sulla semplicità della percezione. Due mondi che avevano in comune anche la volontà di collocarsi nel presente vivo e attuale rifiutando scuole e accademie.
Dagli anni ’30 in poi, invece, non si notano significativi scarti stilistici nell’opera leviana. La sua pittura resta collocata nell’orizzonte del “naturalismo essenziale” che lui stesso teorizza in un testo del ’32, rimasto inedito fino ad oggi. Qui afferma che la sua non è una pittura razionale, bensì il risultato di un approccio puramente intuitivo alla realtà, una pittura “comprensibile per sola via del sentimento” perché da lì prende vita.
Soprattutto nei ritratti - a cui si è dedicato con costanza nel corso di tutta la vita - emerge il suo rapporto completamente soggettivo con il mondo. Per Levi ogni ritratto nasce da un primo rispecchiamento di sé e solo in un secondo momento passa alla scoperta del carattere e della fisionomia del soggetto. Di conseguenza ritratti e autoritratti altro non sono che differenti prese di coscienza dell’io rispetto all’altro da sé. In mostra è possibile ammirare, oltre agli straordinari autoritratti, il Ritratto di Moravia (1932), il Ritratto di Leone Ginzburg (1933), il Ritratto di De Pisis (1933), il Ritratto di Anna Magnani (1954).
Non solo la pittura ma la stessa vita dell’artista furono profondamente segnate dal carcere (a Roma, a Regina Coeli) e dal confino in Lucania, un mondo dove le donne, scrisse, “sanno falciare il grano ma non sanno il sorriso”. Le persone ritratte ora non gli appartengono, fanno parte di un mondo distante che egli sente “immerso nella verità” e che rappresenta in un vortice espressionista e febbrile.
Durante la guerra Levi reagisce ricercando, attraverso al pittura, la realtà vicina, le persone amate, i colleghi che emergono con più forza e solidità plastica dal fondo, spesso immersi in un’atmosfera malinconica che è non rassegnazione ma consapevolezza del presente; le nature morte di questo periodo sono, invece, metafore di un mondo travolto dalla tragedia e presentimento di morte.
Dopo la guerra si trasferisce definitivamente a Roma e qui ricompone i diversi volti della sua attività: la pittura, la letteratura e la politica (nel ’63 sarà anche Senatore della Repubblica).
All’interno della polemica tra astrattisti e neorealisti si schiera in campo neorealista. In una riflessione del ’42 dal titolo Paura della pittura, dichiarava infatti: “ma questa, di dare realtà, di aggiungere agli aspetti del mondo la categoria della realtà e dell’esistenza, il loro nome, la loro forma, è sempre stata la natura stessa dell’arte: la sua necessità, il suo valore esistenziale”.
In questa, che è probabilmente una fase meno creativa della sua pittura, la letteratura raggiunge i suoi vertici: nel ’45 pubblica Cristo si è fermato ad Eboli e nel ’50 L’orologio, dedicato ai primi mesi di permanenza a Roma nell’immediato dopoguerra.
Nel corso della mostra sarà presentato un documentario realizzato dall’Ufficio Produzioni Multimediali del Museo di Roma in Trastevere a cura di Marco Fabiano. Il video si avvale del contributo di Daniela Fonti che illustra il legame di Carlo Levi con Roma e con l’ambiente culturale e artistico della città.
Carlo Levi e Roma. “Il respiro della città”, quindi, mettendo a confronto le opere di Levi con quelle dei suoi contemporanei, nel passaggio dal clima del Novecento a quello angosciato della guerra, è una mostra che racconta la profonda esigenza di rinnovamento della cultura artistica del tempo, un’esigenza espressa non soltanto attraverso la ricerca di nuovi ideali estetici ma anche manifestando nelle opere un penetrante sentimento di comprensione e condivisione della sorte dell’uomo.
26
febbraio 2008
Carlo Levi e Roma. Il respiro della città
Dal 26 febbraio al 15 giugno 2008
arte contemporanea
Location
CASINO DEI PRINCIPI – VILLA TORLONIA
Roma, Via Nomentana, 70, (Roma)
Roma, Via Nomentana, 70, (Roma)
Biglietti
Biglietto unico integrato Casino Nobile, Casina delle Civette, Casino dei Principi con Mostra: € 9 intero; € 5,50 ridotto. Biglietto unico integrato Casino Nobile, Casino dei Principi con Mostra: € 7 intero, € 5 ridotto
Orario di apertura
Chiuso il lunedì e 1 maggio; ore 9-17.30 fino all’ultimo sabato di marzo, 9-19 dall’ultima domenica di marzo al 30 settembre
Vernissage
26 Febbraio 2008, ore 17
Editore
PALOMBI
Ufficio stampa
ZETEMA
Autore
Curatore